05 luglio 2012 17:07

Oggi il cappuccino scuro non è stato un successo. Il barista non mi conosceva, ho avuto un attimo di distrazione e prima che riuscissi a fermarlo la tazza era colma di latte quasi fino all’orlo. L’ho bevuto comunque, per non offenderlo. Ma no, decisamente non andava bene. C’è sempre questo rischio quando sono in giro.

Nei miei due bar di fiducia vado sul sicuro. Nel primo, in Umbria, i baristi hanno imparato a fare il cappuccino scuro come piace a me: stessa dose di caffè ma meno latte, in modo che arrivi a un centimetro dall’orlo. Nel secondo, a Roma, hanno i bicchieri di vetro romani, senza manico, che sono un po’ meno capienti delle tazze di ceramica: se chiedo un cappuccino al vetro, so che mi arriverà già scuro. Ma guai ad applicare questa regola altrove: con il bicchiere sbagliato, rischi di sconfinare verso il caffellatte.

Quando sono a Venezia tutto fila liscio: là esiste il macchiatone, una via di mezzo tra caffè macchiato e cappuccino. Anche il prezzo è calibrato di conseguenza (devo ammettere che ignoro la diffusione regionale del macchiatone: si trova in tutto il nordest? Arriva fino a Milano? Qualcuno mi sa aiutare?).

Nei primi anni di permanenza in Italia ci ho messo un po’ a capire che era questa la mia bevanda mattutina. A volte chiedevo il cappuccino, a volte il caffè macchiato. Ma nel primo l’impatto del caffè era troppo diluito, mentre nel secondo (almeno per il primo caffè della giornata) era troppo forte. Poi ho scoperto, un po’ alla volta, che in Italia il caffè, anche se sembra avere solo tre-quattro declinazioni (come la pizza di Michele a Napoli: “Come la vuoi: marinara o margherita?”), in realtà si presta a una serie di variazioni componibili e accumulabili. Al vetro. Senza schiuma. Tiepido, bollente. Lungo, ristretto. Macchiato caldo, macchiato freddo. Poi le variazioni regionali: marocchino, bicerin, caffè alla nocciola.

Chi di voi è stato a Londra di recente saprà che da almeno dieci anni la città è piena di caffè all’italiana. Per molti anni, il mitico Bar Italia di Frith street, a Soho, fondato nel 1949 (c’è ancora, per fortuna), aveva l’esclusiva. Poi sono arrivate le catene: Caffè Nero, Caffè Uno, Costa e gli statunitensi di Starbucks. Oggi, in tutto il Regno Unito, trovare un caffè (quasi) bevibile non è una grande impresa.

Puoi avere la macchina perfetta, il caffè 100 per cento arabica selezionato, il barista esperto (spesso italiano, tra l’altro). Culturalmente, però, l’esperienza è sempre diversa. Innanzitutto, devi fare la fila. In Italia credo che sia scritto nella costituzione (non ho controllato, ma sarà lì da qualche parte) che puoi entrare in un bar e avere il caffè servito al banco nell’arco di massimo sessanta secondi, a prescindere da quanta gente c’è. A Londra, nelle ore di punta, puoi aspettare anche 10 o 15 minuti (in compenso, noi inglesi abbiamo tempi costituzionali simili, di un minuto o massimo due, per la fila in banca o all’ufficio postale).

Poi, tutti si siedono ai tavoli. L’idea del caffè come droga, da consumare velocemente in piedi (ti siederesti al tavolo per prendere il Viagra?) non è ancora approdata da noi. Nel Regno Unito, la consumazione del caffè si rifà ancora al modello del tè. E per questo motivo, secondo me, che il “doppio” – richiesta piuttosto rara in Italia, nella mia esperienza – è diventato la dose default nei caffè “italiani” di Londra: non è solo per la botta di caffeina, ma anche perché ci vuole più tempo a berlo.

Inoltre, nonostante tutti i mochachino e le altre stranezze che troviamo sulla lista delle consumazioni, i baristi inglesi non riescono a concepire il concetto italiano di

coffee empowerment: ovvero, che le sfumature del caffè sono determinate dal cliente, non dall’ufficio commerciale della catena.

In Italia un barista può sbagliare a fare il cappuccino scuro come piace a me, ma di solito è solo perché non gli ho spiegato bene la variante. È il concetto stesso di variante che manca in altri paesi. Una volta ho provato a insegnare a un barista di Caffè Nero a Chichester (di quelli che portano la scritta BARISTA stampato a grandi caratteri sulla maglietta, a scanso di equivoci) a preparare il cappuccino scuro, ma lui sembrava così confuso, così terrorizzato dall’idea di andare fuori menù, che alla fine ho preso un caffè macchiato.

Ma questo vale per tutte le religioni. Man mano che ti allontani dalla chiesa madre, cominciano ad affiorare i culti, le eresie. Come l’orange frappuccino, che nemmeno contiene il caffè.

Detto ciò, un italiano una volta mi ha confessato che ogni tanto gli piaceva bere un cappuccino dopo pranzo. Ma sapeva di doversi prima scusare con il barista.

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