01 maggio 2015 10:51

Nell’estate del 1851 un nuovo palazzo scintillante di vetro e ferro apparve a Hyde Park, nel centro di Londra. Formato da elementi prefabbricati ed eretto in sole diciassette settimane (non vuole essere uno smacco, erano altri tempi), si chiamava The crystal palace – il palazzo di cristallo. Era stato disegnato da Joseph Paxton per ospitare quella che secondo molti è la prima vera Expo: The great exhibition, voluta dal principe Alberto, il marito dell’allora giovane regina Victoria, per fare bella mostra della fiorente industria manifatturiera britannica e del suo predominio coloniale.

Era anche una mostra creata per misurarsi con il resto del mondo e per diffondere il nuovo entusiasmo inglese per il libero mercato, consacrato nel Regno Unito nel 1846 con l’abrogazione delle leggi protezioniste sull’importazione delle derrate agricole. Non a caso il settimanale The Economist nasce proprio nel 1843, con fondi derivati almeno in parte dalla campagna contro le Corn Laws, le leggi che imponevano dazi sulle importazioni di grano.

Ed era proprio l’Economist che, in un articolo uscito in occasione della chiusura della Great exhibition nell’ottobre del 1851, forniva una chiave di lettura della mostra appena terminata, nonché dell’idea stessa di una Expo “universale”, come una specie di celebrazione della fratellanza dell’uomo basata sulla legge della domanda e dell’offerta.

Secondo l’Economist, l’esposizione di Londra dimostrava non solo che “dall’equatore ai poli, arti simili vengono impiegate per soddisfare bisogni simili”, ma che il nuovo spirito di armonia mondiale auspicata da Alberto in un famoso discorso al Mansion House nel marzo 1849 aveva solide basi economiche: “Ovunque nel mondo”, continuava l’Economist, “si trova qualcosa che viene desiderata altrove, ovunque nel mondo ci sono i mezzi di trasporto e di scambio che permettono al commercio di unire gli ‘uomini di un solo sangue’ con i legami stretti e affettuosi di una grande famiglia”.

Lo storico Paul Young chiama questo concetto “una fantasia capitalista-antropologica”. Karl Marx, residente a Londra dall’estate del 1849, seguiva la mostra con interesse, e (si presume) anche un pizzico di ironia. Alla vigilia dell’apertura, scrisse un articolo insieme a Engels che la bollava come “una prova lampante del potere concentrato grazie al quale la grande industria moderna sta smantellando ovunque le barriere fra nazioni e sta facendo sfumare, sempre di più, le differenze locali di produzione, società e carattere nazionale fra i popoli”.

La frase di Marx ed Engels era una delle prime analisi del fenomeno della globalizzazione. Nasce dal fatto che la Great exhibition era una delle prime grandi manifestazioni che promuoveva una certa idea di globalizzazione. Era un’idea – fatto riconosciuto anche da chi la pensava diversamente, come gli opinionisti dell’Economist – che derivava impulsi buonisti, cristiani e anti-razzisti (perfino anti-elitari, in quanto la mostra rappresentava il trionfo definitivo della borghesia urbana sulla vecchia aristocrazia terriera inglese) da un nuovo modello economico globale, il capitalismo di stampo liberista, che in sé non era né buonista, né cristiano, né anti-razzista. E che combaciava benissimo con il progetto imperiale di una nazione che allora regnava su un quarto della popolazione mondiale.

Insieme alle sue colonie, il paese ospite occupava la metà dello spazio, con circa 50mila oggetti sistemati su ben otto chilometri del percorso espositivo all’interno del Crystal palace. La visione del mondo del visitatore britannico medio alla mostra del 1851 non deve essere stata molto lontana da quella descritta molti anni dopo dallo storico Eric Hobsbawm nel libro La rivoluzione industriale e l’impero (Einaudi 1972): “Il mondo… era una specie di sistema planetario che girava intorno al sole economico rappresentato dalla Gran Bretagna”.

Perfettamente sostenibile anche secondo i canoni di oggi, il palazzo di cristallo disegnato da Paxton rifletteva questa visione insieme buonista e paternalistica. Lungo 564 metri e alto 39 metri, era fatto per sbalordire, ma con criteri ecologici: la forma era quella di un’immensa serra, le cui grandi vetrate riducevano la necessità di illuminazione artificiale durante le ore diurne. Perfino i proto-ambientalisti londinesi che protestavano contro il pericolo di abbattimento di alcuni alberi secolari di Hyde Park furono accontentati: in perfetto stile coloniale, il palazzo venne progettato per inglobarli.

Dal 1851 sono cambiate molte cose nel mondo. La Gran Bretagna è diventata un pesce piccolo nel mare del potere mondiale, l’industria manifatturiera non è più fonte di ottimismo e meraviglia quasi da nessuna parte, la globalizzazione è arrivata a un punto che nemmeno Marx e Engels avrebbero potuti immaginare. Eppure le esposizioni universali sono ancora con noi.

Oggi ne viene inaugurata una nuova, a Milano. Proprio il primo maggio – il giorno in cui la regina Victoria inaugurò la Great exhibition nel 1851. Prima o poi voglio fare un salto – forse meglio poi che prima, visto il già annunciato ritardo di alcune fasi del progetto. Sono curioso, perché se riesco a capire benissimo la logica della Great exhibition, mi rimane più difficile afferrare che cosa vuole essere una esposizione universale nel 2015.

Sarà vero che la componente di “fantasia capitalista-antropologica” delle origini ha lasciato il posto, in questo nuovo concetto di Expo, a una vera fratellanza e sorellanza universale? Peserà di più il campanilismo del renziano “se noi siamo bravi, l’Expo Milano 2015 diventa la cartina di tornasole delle grandi ambizioni che ha l’Italia” o la mission statement insospettabilmente internazionalista presente sul sito della manifestazione, che recita “Expo Milano 2015 si confronta con il problema del nutrimento dell’uomo e della Terra e si pone come momento di dialogo tra i protagonisti della comunità internazionale sulle principali sfide dell’umanità”?

Sarà un grande parco a tema didattico, una kermesse di nazioni e aziende desiderose di presentare le loro credenziali sostenibili ed eco-sensibili, o riuscirà a rimanere al di sopra della mischia degli sponsor e gli interessi di parte per offrire delle soluzioni serie a un problema urgente?

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