25 novembre 2015 11:30

Avendolo mancato a Cannes, ero molto contento di vedere che As mil e uma noites del regista portoghese Miguel Gomes era stato inserito nel programma del Torino film festival. Si tratta di un filmone di 6 ore e 16 minuti, diviso per motivi pratici in tre parti di poco più di due ore. Volendo si poteva spalmare la visione torinese su più giorni, ma c’era anche una sessione fiume che durava dalle quattro del pomeriggio fino a mezzanotte con due pause. Yes please: mi sono sempre piaciute le gare di resistenza, almeno quelle culturali. Mi sono procurato i biglietti e insieme a una schiera di cinefili agguerriti mi sono abbandonato, per un lasso di tempo in cui avrei potuto arrivare in treno da Torino a Napoli e mangiare una pizza all’arrivo, all’affabulazione di Gomes.

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Una didascalia all’inizio di ognuna delle tre parti spiega che il film attinge solo nella sua struttura “novellistica” ai racconti con il finale sospeso che Sharazad raccontava al crudele re persiano Shahriyar, per convincerlo a rinviare, notte dopo notte, il suo funesto destino. L’ispirazione per le varie storie arriva, invece, da “alcune notizie emerse fra l’agosto del 2013 e il luglio del 2014 a causa del programma di austerità messo in atto in Portogallo da un governo che apparentemente non aveva il minimo riguardo per la giustizia sociale”.

Un prologo strambo – girato in parte come documentario – mescola insieme le proteste dei lavoratori di un cantiere navale portoghese in fallimento con i guai degli apicoltori di una zona del paese afflitta da un’invasione di calabroni cinesi mangia-api. A un certo punto il narratore ci avvisa che secondo lui è impossibile girare un film militante che sia anche un film meraviglioso, magico, senza tempo, perché si tratterebbe di una specie di “dandysmo” cinematografico. Allora siamo indotti a dedurre che tutto quel che segue sarà un paradosso, il tentativo di mettere in atto un’operazione impossibile.

Proprio come la vita, le sei ore seguenti hanno degli alti e bassi. Alcune storie, come il lungo ritratto documentaristico degli addestratori di fringuelli che occupa una grossa fetta dell’ultima puntata, o quello curioso dell’amante gelosa che diventa piromane, non sembrano avere un legame diretto con la crisi, mentre altri la trattano frontalmente. Letteralmente, nel caso della storia satirica degli “uomini che ce l’hanno duro” (sono banchieri e ministri delle finanze europei, naturalmente).

Ognuno è destinato a uscire dalla maratona con un racconto preferito. Il mio è stato Le lacrime del giudice, nella seconda parte, in cui una giudice presiede un’udienza strana, onirica, davanti a un’aula che non è altro che un antico teatro pieno di spettatori, alcuni mascherati. All’inizio il suo compito sembra semplice: condannare una madre e figlio che hanno venduto i mobili dell’appartamento che avevano preso in affitto. Ma c’è l’attenuante della meschinità del loro padrone di casa, accusato da una donna sordomuta, presente tra il pubblico in aula, di averla costretta a organizzare un furto di bestiame (circostanza confermata da una mucca parlante). E così via: alla fine di una serie infinita di accuse e controaccuse, una “catena grottesca di stupidità, infamia e disperazione”, come la definisce la stessa giudice, causata dall’impoverimento economico ed etico di un intero paese, diventa impossibile emettere una sentenza. Bisognerebbe condannare quasi tutti.

Discontinuo, slegato, indisciplinato, As mil e uma noites rimane comunque una delle reazioni più originali alla crisi europea che un artista abbia fornito finora. Ci vuole un po’ per sbrogliare tutta la matassa, ma alla fine mi sono accorto che la chiave di lettura essenziale è la voglia di raccontare storie. Le storie inquadrano il malessere, ma ci aiutano anche, forse, a superarlo, instaurando una specie di solidarietà narrativa, una repubblica dei racconti.

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