19 maggio 2016 18:49

Laura Poitras è una documentarista affascinante. È al tempo stesso una giornalista impegnata e un’artista dall’ottima capacità analitica. A febbraio, al Whitney Museum di New York, ho visto questi due lati del suo carattere raggiungere un equilibrio in Astro noise, la sua prima mostra personale in una galleria d’arte.

L’esposizione raccoglieva, tra le altre cose, documenti riservati della Cia e della Nsa, un’intervista con un ex detenuto di Guantanamo, delle foto enormi che sembrano tappeti ma che in realtà sono delle schermate formate dai dati criptati intercettati dai servizi segreti e un muro con delle fessure illuminate, ognuna delle quali nasconde dei file segreti. Alla fine del percorso, il visitatore scopre che anche lui è stato sorvegliato durante tutta la mostra.

A prima vista, i documentari di Laura Poitras possono sembrare, in contrasto con l’astuzia della sua arte a sfondo politico, delle semplici denunce di ingiustizie o ritratti acritici di persone che le combattono. Gli ultimi tre film hanno formato una trilogia, lanciata nel 2006 con My Country, my country, dedicato alla guerra in Iraq. Nel 2010 con The oath, Poitras ha affrontato Guantanamo e la guerra contro il terrorismo.

Poi è arrivato il suo documentario più famoso, Citizenfour, che raccontava il “martirio” di Edward Snowden con toni quasi da thriller. A incoraggiare una lettura dei film di Poitras come dei pamphlet di una pasionaria poco obiettiva – se si volesse fare il gioco dei potenti criticati da Poitras – ci sarebbe anche il fatto che la regista stessa è stata messa dal governo statunitense su una “terrorist watchlist” per via della sua attività giornalistica giudicata “antiamericana”.

Questo preambolo serve per spiegare la doppia natura del nuovo film di Poitras, Risk, presentato il 19 maggio nella sezione parallela della Quinzaine des réalisateurs al Festival di Cannes. Risk è un documentario su WikiLeaks, un’organizzazione internazionale che riceve in modo anonimo e pubblica documenti, spesso coperti dal segreto di stato o dal segreto bancario, e poi li carica sul proprio sito. Ma è anche un ritratto del suo fondatore, Julian Assange. Semplificando, si potrebbe dire che è quando presenta WikiLeaks che Poitras fa la pasionaria, mentre quando rappresenta Assange non lo fa in modo sempre positivo.

Risk, il primo documentario “autorizzato” da Assange, entra anche dentro l’ambasciata ecuadoriana di Londra, dove Assange vive da quasi quattro anni. Per ottenere quest’accesso privilegiato Poitras è entrata in confidenza con Assange e vuole ricordarci che WikiLeaks è la nave ammiraglia di un movimento globale di persone che combattono contro la segretezza intesa come mezzo di controllo e repressione.

Assange è un uomo complesso, intelligente ma anche arrogante, informato ma al tempo stesso complottista

La regista ci ricorda anche che questo movimento ha dei risvolti metafisici, perfino messianici. C’è uno strano passaggio a un certo punto, quando una frase di Assange sulla vita e la morte è riproposta da un suo fedele collaboratore, il giornalista statunitense ed esperto di sicurezza informatica Jacob Appelbaum. “Ogni giorno che passa è come una piccola morte”, dice Assange a un certo punto. “Alla fine moriremo tutti”, gli fa eco Appelbaum mesi dopo. “La cosa più importante è come abbiamo vissuto”. Roba più da culto religioso che non da organizzazione cypherpunk. Ma forse WikiLeaks è sia l’uno che l’altro.

Assange è comunque il fulcro del documentario. È un uomo complesso, intelligente ma anche arrogante, informato ma al tempo stesso complottista. La sua principale collaboratrice, Sarah Harrison, in passato ha avuto con lui una relazione e sembra esserne ancora ammaliata.

All’inizio del film, Assange le ordina di telefonare a Hillary Clinton (arrivano solo fino a un funzionario del dipartimento di stato), ma quasi subito le ordina di passargli il telefono, visibilmente insoddisfatto per come sta conducendo la conversazione. Più tardi, durante un colloquio con i suoi difensori, il fondatore di Wikileaks ammette di credere che le accuse mosse contro di lui in Svezia facciano parte di una “cospirazione femminista” (ironicamente, i difensori sono due donne, come la regista e la sua direttrice della fotografia).

Entriamo perfino nel bagno con Assange mentre si prepara per il suo volo per l’ambasciata: ha i capelli tinti biondo rame, le lenti a contatto colorate, indossa occhiali da sole avvolgenti e un giubbotto da motociclista. Sembra un magnaccia di periferia. Mesi dopo, lo vediamo seduto nell’ambasciata mentre sorveglia i poliziotti schierati fuori. Una scena eloquente, alla fine, lo ritrae senza fiato dopo una sessione di boxe con il personal trainer, a prendere boccate d’aria da una finestra socchiusa che non può aprire del tutto.

L’incontro più strano è sicuramente l’arrivo di Lady Gaga nell’ambasciata per intervistare Assange. I casi sono due: o la popstar è un’idiota, o è un genio postmoderno, perché attraverso delle domande che sembrano di una scemenza inaudita tira fuori delle reazioni rivelatorie. Per esempio quando chiede ad Assange: “Qual è il tuo genere preferito di cibo?”, strascinando le parole in perfetto stile Gaga. Teso, a disagio, il fondatore di Wikileaks comincia ad abbozzare una risposta, ma poi si interrompe per dire: “La cosa che devi sapere di me è che sono ossessionato dalla nostra lotta politica… non sono una persona normale”.

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