07 novembre 2010 13:56

Il premier Wen Jiabao è diverso dagli altri leader cinesi. Quasi tutti i dirigenti comunisti mancano di personalità e di stile e sembrano dei cloni prodotti in laboratorio. Invece Wen Jiabao, almeno dal 2007, ha cominciato a distinguersi.

Nel corso del suo primo mandato da premier si è comportato come il tipico tecnocrate prudente e lavoratore. Ma all’inizio del secondo mandato il suo modo di presentarsi in pubblico e i suoi discorsi sono cambiati. Il primo segno di questo cambiamento c’è stato nel marzo del 2007: durante una conferenza stampa Wen ha dichiarato che “la scienza, la democrazia, lo stato di diritto, la libertà e i diritti umani non sono sfere di esclusiva competenza del capitalismo, ma valori condivisi che l’umanità persegue da sempre nella sua lunga storia, e prodotti di una civiltà comune”.

La democrazia come valore

Per capire quanto siano innovative queste affermazioni basta pensare al fatto che il primo riformatore della Cina, Deng Xiaoping – che lanciò una coraggiosa rivoluzione economica –, fu sempre contrario a qualsiasi apertura democratica. Wen invece, includendo la “democrazia” nel suo elenco di “valori condivisi”, è sembrato abbandonare le posizioni tradizionali dei massimi dirigenti cinesi. Ecco perché le sue parole, agli occhi degli intellettuali progressisti, sono sembrate perfino sovversive rispetto all’ortodossia.

Wen Jiabao non si è fermato qui. Ha anche dichiarato che “bisogna permettere alle persone di vivere dignitosamente”, e ha dato la seguente definizione di dignità: “Primo, ogni cittadino deve godere dei diritti e delle libertà garantiti dalla costituzione: tutti sono uguali di fronte alla legge. Secondo, il fine unico e supremo dello sviluppo è soddisfare le crescenti esigenze materiali e culturali del popolo. Terzo, lo sviluppo della società deve avere come presupposto lo sviluppo dell’individuo. Dobbiamo cioè aiutare le persone a svilupparsi liberamente e pienamente, lasciando che i loro talenti e le loro capacità entrino in competizione e fioriscano”. E ha detto con forza che la chiave di ogni riforma è limitare i poteri dello stato, che la Cina deve costruire una società equa e giusta, e che lo stato di diritto deve essere indipendente dal potere politico.

Nel 2009, alla vigilia del trentesimo anniversario della “zona a economia speciale” di Shenzhen, ha detto che le riforme politiche sono indispensabili se la Cina vuole evitare che il suo sviluppo finisca in un “vicolo cieco”. A questo punto vale la pena di sottolineare che in Cina ci sono due modi diversi di vedere le riforme politiche.

Le autorità tendono a interpretare quest’espressione in modo molto restrittivo, cioè come provvedimenti per aumentare la “vitalità” del Partito comunista e aiutarlo a “migliorarsi”. Se una riforma non tende a rafforzare il partito significa che “mette in discussione il potere dello stato” e va quindi repressa senza pietà.

Invece per gli intellettuali cinesi le riforme esigono che il partito restituisca il potere alla società: al popolo, a un potere giudiziario indipendente, alla libertà di parola. E se questo può provocare il rovesciamento del partito, poco importa: è una naturale conseguenza del processo democratico. Fin dal 2007 Wen Jiabao cerca di conciliare queste due concezioni opposte, mostrando però una certa preferenza per la seconda.

Un leader riformatore

Perché ha scelto questa strada? E come può percorrerla senza subirne le conseguenze? Wen sa che non ci saranno progressi politici reali prima della fine del suo mandato. Vuole solo che le generazioni future lo ricordino come un leader riformatore. Quindi è probabile che prima della scadenza del suo mandato, nel 2012, gli sentiremo fare dichiarazioni ancora più esplicite.

In realtà, il processo di selezione della classe politica cinese ha fatto notevoli passi avanti rispetto all’epoca in cui gli anziani del partito si sceglievano i successori. Oggi il politburo trae la sua legittimazione dalle elezioni del congresso nazionale del popolo, cioè il parlamento cinese. Perciò i leader, anche quando perdono il favore dell’élite al potere, non possono essere destituiti da un giorno all’altro.

La riunione del comitato centrale del congresso nazionale del popolo a ottobre, in cui Xi Jinping è diventato uno dei vicepresidenti della commissione militare centrale (e quindi il probabile successore del presidente Hu Jintao) rispecchia il fatto che in Cina i processi politici decisivi sono ancora tutti interni al partito, ma sono ormai caratterizzati da una maggiore competizione e responsabilizzazione dei politici, e questo è un passo avanti importante, uno spiraglio di democrazia.

Oggi le ambizioni della Cina non dipendono più da un unico leader politico, che si chiami Hu Jintao o Xi Jingping. Per assicurare il progresso del paese, l’élite al potere deve comprendere che la strada fin qui percorsa è ormai chiusa e che serve una svolta. Questa transizione verso le riforme avrà bisogno non solo di princìpi guida, ma anche di un grande capitale sociale, e sarà lunga e difficile. Forse un giorno Wen Jiabao vedrà riconosciuto il suo ruolo di pioniere delle riforme. Sarà la storia a giudicarlo.

*Traduzione di Marina Astrologo.

Internazionale, numero 871, 5 novembre 2010*

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