27 giugno 2016 15:13

In Spagna si rafforza la destra tradizionale e si riduce lo spazio della sinistre, che dalle legislative del 20 dicembre 2015 il Partito socialista (Psoe) condivide soprattutto con Podemos. Ma Pedro Sánchez, segretario in difficoltà della storica formazione progressista, e Pablo Iglesias, leader carismatico e indiscusso degli antisistema, si svegliano oggi in condizioni diverse. Pur nella sconfitta, Sánchez ha vinto diverse battaglie; Iglesias invece non ha salvato niente.

Seppur ammaccato, Sánchez tira un sospiro di sollievo. Il voto ha riaffermato la leadership dei socialisti all’interno della sinistra e la sua all’interno del Psoe. “La grande formazione che ha consolidato la democrazia, creato il welfare e portato il paese in Europa” (così si è espresso ieri sera il segretario) resta il secondo partito più votato, il primo dell’opposizione, e ha vinto almeno la sfida a sinistra: il sorpasso di Podemos, vaticinato da sondaggi e exit poll, non c’è stato. Il Psoe si ferma a 85 seggi, rispetto ai 90 conquistati in dicembre, ma Podemos resta inchiodato a 71.

La seconda sfida superata da Sánchez è conseguenza della prima. Il leader che ha scongiurato l’umiliazione del sorpasso rafforza la sua posizione interna. Il suo lavoro per provare a formare un governo è stato sistematicamente sabotato dai baroni socialisti, che l’hanno lasciato senza la credibilità necessaria per trattare con gli altri partiti. In prima linea, c’è sempre stata Susana Díaz, presidente dell’Andalusia. Ebbene, ieri è successo qualcosa di incredibile: quest’immensa regione in mano ai socialisti dall’inizio della democrazia manda a Madrid 23 deputati popolari e 20 socialisti. È una sconfitta per Díaz, un sollievo per Sánchez.

Mariano Rajoy consolida la sua immagine di soldato semplice e resiliente, senza guizzi ma dedito alla causa

La terza battaglia il segretario socialista l’ha vinta (pur perdendo consensi e seggi) sul fronte esterno. Se si allarga lo sguardo alla Spagna che ha scelto la continuità, risulta evidente che Sánchez ha in mano le sorti del governo. Il Pp da solo non può fare nulla. Ha bisogno del Psoe. Anche se Rajoy riuscisse nell’impresa fallita mesi fa (cioè allearsi con Ciudadanos e con i nazionalisti baschi o con quelli delle Canarie), non potrebbe superare il voto di fiducia in parlamento senza l’appoggio esterno, o almeno l’astensione, dei socialisti. Sánchez ha anche l’ultima parola sull’unica opzione che al momento dispone di una maggioranza ampia, e cioè la coalizione tra popolari e socialisti.

Da questo scenario, il segretario del Psoe ha da perdere più di Rajoy, che semmai consolida la sua immagine di soldato semplice e resiliente, senza guizzi ma dedito alla causa. La scelta di Sánchez sarebbe difficile da giustificare all’elettorato: per tutta la campagna elettorale ha insistito sul cambiamento, criticando le politiche sociali del Pp – misure di austerità che hanno evitato l’insolvenza e il salvataggio ma hanno accresciuto povertà e disuguaglianze – e il leader conservatore rimasto al governo negli ultimi cinque anni.

La mano tesa di Iglesias

Dunque, le elezioni del 26 giugno hanno consacrato la politica tradizionale: lo storico bipartitismo tra popolari e socialisti resiste, la nuova politica traballa.

È la ragione per cui Pablo Iglesias ha perso tutta la posta in gioco. Gli exit poll davano Unidos podemos (la lista congiunta di Podemos e comunisti di Izquierda unida) tra i 91 e i 95 seggi. Lo scrutinio è stato una doccia fredda: il movimento convertito in partito si è fermato a 71 deputati, mentre in dicembre Podemos ne aveva conquistati 69 e Izquierda Unida due. Rinserrare le file a sinistra non è servito a niente. Anzi. Se la nuova formazione ha retto in termini di seggi, in numero di consensi è sprofondata. La coalizione delle sinistre ha perso più di 1,2 milioni di voti rispetto al 20 dicembre. È il soggetto che ha perso di più in questa specie di secondo turno delle legislative: il Psoe ha ceduto poco più di 260mila voti e Ciudadanos 500mila.

Iglesias e i suoi entrano deboli e marginali nelle trattative per la formazione di un governo. Ieri sera ha teso la mano a Sánchez, ma a parte l’inutilità aritmetica di un’eventuale alleanza tra i due, anche il fattore morale congela i rapporti. Iglesias ha raccontato di aver mandato un messaggio a Sánchez, invitandolo a “lavorare insieme per il cambiamento”. Sánchez non ha risposto. È ovvio che prima deve godersi per qualche giorno la rivincita per il pericolo scampato.

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