17 ottobre 2016 17:51

Quando la terza stagione di Transparent, una delle serie tv più premiate degli ultimi anni, è uscita di recente su Amazon video (presto sarà anche in italiano su Sky Atlantic), le recensioni sulla stampa anglosassone sono state entusiastiche. “La cosa migliore da vedere in questo momento”, secondo il Guardian. “In qualche modo, alla terza stagione, questa serie riesce a diventare ancora migliore”, ha scritto Slate.

Alcune recensioni si sono soffermate sul piacere di ritrovarci di nuovo in compagnia dei Pfefferman, il clan al centro della serie. Altre hanno osservato che la storia si concentra sempre più sul tema della compassione umana e su una forte tensione spirituale. Tutte osservazioni che potrebbero stupire rispetto a una serie in cui spesso, in realtà, a dominare sono l’incostanza e l’egoismo dei personaggi, e in cui la protagonista Maura Pfefferman, settantenne con una smorfia di perenne scetticismo, in una scena di un nuovo episodio dichiara brutalmente: “La vita fa schifo e poi muori”.

La saga dei Pfefferman è ricca di sfaccettature. La storia del professore universitario in pensione che rivela di essere una donna transgender (Maura), e delle confuse vite sentimentali dei suoi tre figli, non si distingue perché cerca di estremizzare lo stereotipo narrativo della famiglia disfunzionale. Spicca invece, nella sovraproduzione seriale degli ultimi anni, perché è superbamente poetica, comica, esistenziale. Tremendamente seria e lieve insieme.

Proprio nel ritratto di questa umanità, contraddittoria e inquieta, stanno la forza e la portata universale della serie

Transparent parla di transizione. Parla di insoddisfazione, di trauma, e della fatica inesauribile di diventare se stessi. Certo, il mondo che descrive potrebbe incarnare gli incubi di chi, in Italia e altrove, per anni ha vaneggiato sul “gender”. Ritrae una famiglia i cui componenti sono tutti impegnati in una ricerca esistenziale nomade, continua, spesso incuranti dei confini fra i generi e le sessualità. Inoltre, rifiutandosi di essere un’apologia e di santificare i suoi personaggi, la serie sembrerebbe quasi confermare l’accusa tipica di certi teorici cattolici: che in un mondo in cui tutto è permesso, l’individuo si perda in un labirinto di desideri egoistici.

In effetti, i membri della famiglia Pfefferman sono assorbiti da se stessi. Sarah, la maggiore dei figli, non esita a lasciare un marito e poi una quasi moglie per seguire gli impulsi della sua indecisione. Josh non riesce a restare vicino alla compagna, la donna rabbino Raquel, nemmeno quando lei ha un aborto spontaneo; nel suo fluttuare, si aggrappa a chiunque entri nella sua vita con l’entusiasmo di un ragazzino sperduto. Ali, la figlia più giovane, dalla carriera incerta, passa come la sorella attraverso relazioni con entrambi i sessi, e alterna momenti di profonda sensibilità con altri di orribile immaturità. Ma proprio nel ritratto di questa umanità, contraddittoria e inquieta, stanno la forza e la portata universale della serie. Transparent è fedele al suo titolo: c’è un trans parent, un genitore trans. E insieme, alla lettera, la condizione di essere trasparenti: ovvero nudi, esposti, vulnerabili.

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I bambini sono presenti (Sarah ne ha due, mentre Josh vive dolorosi tentativi di realizzarsi come padre), ma l’attenzione è puntata sugli adulti e sulle sabbie mobili dei loro desideri. Il sesso è qualcosa di radioso, realistico, imperfetto. La spiritualità rischia fatalmente di diventare un’altra tappa dell’inquietudine onnivora, usata come un conforto per il proprio io anziché un modo per superarlo. Al tempo stesso, la tensione trascendente fa da controcanto alla realtà dei personaggi – il rito struggente di un bagno purificatorio. Le litanie ebraiche che si levano, misteriose e dolenti, come un commento senza tempo alle strane convulsioni degli umani di oggi.

Intorno c’è il paesaggio di una Los Angeles che non offre punti di riferimento. Soprattutto, ci sono un’epoca e una cultura che incalzano gli individui affinché scoprano e diventino quello che sono, ma in cui l’obiettivo di sentirsi realizzati sfugge di continuo.

La fragilità preziosa della libertà
La libertà di seguire le proprie inquietudini interiori riserva da sempre molte trappole. Eppure, già nella seconda stagione della serie, ci pensa una trama parallela ambientata nella Berlino degli anni trenta, nel periodo di Weimar, a ricordarci la fragilità preziosa di quella libertà. Maura proviene da una famiglia di ebrei tedeschi scampati (non tutti) all’Olocausto. La responsabilità di usare al meglio la sua vita non può certo sfuggirle. Anche Shelley, la sua ex moglie dall’aria svagata, nasconde molti traumi e dolori. La vita forse fa schifo e poi si muore, eppure non ci si può sottrarre al tentativo di continuare, testardi, a mettere al mondo se stessi.

Specchio lucido di molti umori dei nostri tempi, Transparent si prende gioco bonariamente degli intellettualismi accademici dei gender studies, e mostra che certi eccessi identitari rischiano di trasformarsi in un qualunquismo ottuso (come quando Maura viene scacciata da un campeggio femminista perché in quanto ex uomo avrebbe conosciuto il privilegio maschile, lei che per settant’anni ha vissuto la condizione maschile come una prigione).

Le continue svolte narrative potrebbero sembrare esagerate, ma è il messaggio morale della serie a essere rigorosamente realistico: la ricerca di sé non è eroica né fascinosa, è soltanto molto umana. Una ricerca per molti necessaria, connaturata al nostro essere vivi qui, oggi.

A volte la serie stessa sembra in equilibrio fra la celebrazione e la critica perplessa di ciò che racconta; fra progressismo californiano e una sotterranea pulsione conservatrice. Sembra suggerire che le oasi di serenità siano quelle in cui si dimentica l’ossessione individuale. Quelle in cui si ritrova la scintilla di un senso di comunità, l’abbraccio di una possibile famiglia (tradizionale o nuova che sia), il silenzio meditativo di una preghiera.

Transparent pare suggerire persino che le distinzioni più schematiche fra valori progressisti e conservatori sia ormai datata rispetto al complesso incastro delle nostre vite. Ciò che resiste, che ci fa restare ancorati all’esperienza di vivere fra gli altri, è la capacità di provare compassione per la vulnerabilità dell’altro. E di riconoscere la sua trasparenza.

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