29 gennaio 2015 15:51

Spesso i miei compatrioti domandano – a chiunque esca dal paese, a chiunque arrivi nel paese – “come ci vedono da fuori”. L’immagine argentina all’estero è un’ossessione nazionale. Per questo ai miei compatrioti non piace sentirsi dire la verità: in generale non ci guarda nessuno. Tranne, chiaramente, in giorni come questi.

In questi giorni la morte del magistrato Alberto Nisman ha catturato l’attenzione della cronaca nera di tutto il mondo con intrecci e intoppi. Quando si sarà dissipata la foschia della morbosità politica e poliziesca, e quando avremo assorbito il colpo brutale del ritorno della morte politica nel panorama nazionale, cominceranno a essere più chiari altri effetti a medio termine, per esempio le svalutazioni.

In questi giorni l’Argentina, un paese che si è svalutato e ha svalutato così tanto, ha definitivamente sancito due svalutazioni decisive.

Una è la svalutazione della parola dello stato. Nel gennaio del 2007 la presidente Cristina Fernández decise un intervento sull’Indec, l’istituto statistico nazionale. L’inflazione continuava a crescere e la risposta delle autorità fu di uccidere il messaggero: misero un kamikaze a capo dell’Indec e lo lanciarono a produrre cifre false e ridicole che non ingannavano nessuno. Regioni, parlamenti e agenzie di consulenza occuparono il vuoto lasciato dall’Indec e cominciarono a fornire cifre più plausibili. Lo stato suicida aveva ritirato il monopolio sui dati che definiscono l’economia del paese – inflazione, occupazione, povertà, produzione – e soprattutto aveva chiarito la sua volontà di mentire.

Da allora lo stato argentino è stato percepito sempre di più come una fabbrica di finzioni. L’apoteosi è stata raggiunta in questi giorni, quando nessuno ha creduto alle versioni ufficiali sulla morte di Alberto Nisman. Non solo perché sono confuse e contraddittorie: se per qualche miracolo la giustizia o la polizia mostrassero un video provvidenziale con la registrazione della fine di Nisman passo dopo passo, moltissimi argentini continuerebbero a chiedersi come siano riusciti a falsificarlo.
Si è svalutata anche la parola presidenziale. La signora Fernández, grande amante dei canali televisivi nazionali, è rimasta in silenzio per una settimana dopo la morte del suo accusatore. Ma ha scritto due lettere, pubblicate sul suo account di Facebook. Se a scriverle non fosse stata la presidente, quelle due lettere potrebbero essere usate a scuola come un esempio del degrado della scrittura nel sud del sud e dei meandri scabrosi e delle contorsioni di una mente confusa. Ma è andata così.

Teoricamente la parola di un presidente dovrebbe avere un peso: non per la persona, ma per la carica. Per un presidente la parola è uno strumento di potere: i suoi cittadini devono essere convinti che se un presidente dice qualcosa è perché ciò che dice ha un fondamento, una ragione, una forza, un effetto. Se parla a vanvera, se scrive la prima cosa che gli passa per le testa, se non si fa consigliare, se parla della realtà del suo paese come se non fosse una sua responsabilità, se inveisce come se fosse dell’opposizione, la parola presidenziale si degrada e diventa un’occasione per qualche battuta o, nel migliore dei casi, un rumore di fondo.

Anche se a volte tocca dei picchi retorici, come una di quelle frasi (in)felici che resteranno impresse nella memoria come la sintesi di qualcosa che molti preferirebbero dimenticare: “Non ho prove ma non ho dubbi”.

Le svalutazioni della parola – dello stato, della presidenza – avranno effetti che si ripercuoteranno, al di là del periodo attuale, su anni e anni di politica argentina. Effetti che potrebbero perfino essere interessanti: i politici che vorranno recuperare il peso delle parole dovranno compiere enormi sforzi – di sincerità, di verosimiglianza, di ispirazione – per riuscirci. O forse non ci riusciranno mai (in fin dei conti, l’Argentina è il paese del Quesevayantodos, se ne devono andare tutti), e allora la storia potrebbe rivelarsi ancora più interessante.

(Traduzione di Francesca Rossetti)

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