22 dicembre 2014 15:59

Quando nell’estate del 1972 Bob Woodward and Carl Bernstein del Washington Post intuirono dei legami tra il governo degli Stati Uniti e i furti alla sede del Partito democratico nel Watergate building di Washington, cominciarono a scriverne. Scrissero nel corso di cinque mesi 201 articoli, e poi andarono avanti per un paio d’anni.

Ovviamente Gola profonda, il dirigente dell’Fbi che li indirizzò incontrandoli nella notte in un parcheggio in Virginia (come racconta Tutti gli uomini del presidente), fu una figura chiave della loro indagine. Ma le informazioni ottenute dai due cronisti furono macinate per anni in un frullatore insieme a notti in bianco, ragionamenti, errori, liti, successi, paure, dubbi, rischi, scoramenti e spavalderie.

Per quanto l’impresa dei due premi Pulitzer del Washington Post sia ormai talmente epica da appartenere quasi più alla letteratura che al giornalismo, se ne possono ancora estrapolare degli elementi interessanti ogni volta che qualcuno diffonde informazioni riservate.

Quando vengono rubati dei documenti per via telematica come è successo recentemente alla Sony, si dibatte: è lecito pubblicarli?, è giusto?, è una notizia?, è un pettegolezzo?

Su Slate, Justin Peters risponde ad Aaron Sorkin: il secondo è sul no, e lo dice anche dall’alto delle sue conversazioni trafugate e rese pubbliche, mentre la posizione di Peters si può sintetizzare nel suo “The Sony leaks shed light on an industry that affects millions of people worldwide”, i documenti della Sony emersi fanno chiarezza su un’industria che ha a che fare con milioni di persone nel mondo. Dietro a questa motivazione, quella della rilevanza, credo ci sia un alibi nella peggiore delle ipotesi, e uno sgambetto logico nella più nobile.

Premetto che la questione specifica del terrorismo, la pista nordcoreana e il ritiro dalle sale del film The interview non c’entrano il mio discorso, e non ne parlerò.

Il giornalismo è tante cose, tantissime, così come la guerra. Ma nei film di guerra, come nell’Iliade, quello che succede ha sempre a che fare con uomini che rischiano la vita in battaglia, e molto poco con mappe catastali, summit di primi ministri, fabbriche che smettono di fare le pentole e attaccano con le fusoliere. Nell’idea letteraria del giornalismo non ci sono scelte, decisioni, ragionamenti e riunioni di redazione: la notizia, il pezzettino di informazione da diffondere al pubblico è il graal, un oggetto sacro e inviolabile che va oltre qualsiasi scelta e posizione individuale. Sembra, a sentire i giornalisti quando si raccontano così, pavoni indomiti in missione per conto del pubblico, che la notizia li attraversi, li usi come un cavo, non vada nemmeno toccata ma solo distribuita al mondo.

Credo che il lavoro del giornalista cominci molto prima della notizia e finisca molto dopo. L’idea che le informazioni vadano diffuse in modo neutro, senza pensiero e commento, senza contesto e spiegazione, è forse fascinosa ma falsa. Quello che distingue una voce da una notizia è proprio il lavoro che ci sta prima e dopo: la verifica delle fonti, l’inquadramento della notizia nel contesto in cui si muove, lo studio sul prima e sul dopo, su quel che c’è intorno, sul se, come e quando pubblicarla.

Da un po’ di anni a questa parte ciascuno di noi è diventato fonte di notizie attraverso il lavoro di pubblicazione costante nonché gratuito e amatoriale di fotografie, informazioni e reportage istantanei. Ma ogni volta che questa idea di redazione globale democratica tocca argomenti veramente delicati e cruciali, i falsi e le manipolazioni sono sempre più numerosi. Si rischia prestissimo di perdere qualsiasi impulso sinceramente democratico, per ritrovarsi col forcone in mano, indignati, ubriachi di populismo, a maneggiare terabyte di informazioni contraddittorie che esigono di essere lavorate. Anche online insomma, anche su Instagram o Twitter, il lavoro inizia e finisce prima.

Se qualcuno ruba i documenti della Sony, lo sta facendo per una ragione. Il fatto che il furto telematico sembri meno furto è solo perché siamo da troppi pochi decenni abituati all’idea dei dati digitali, e ci fa più effetto una finestra rotta di un firewall bucato. Ma il punto resta: se anche rubare dati digitali da un’azienda come la Sony fosse facile, e non lo è, sarebbe come entrare in casa di un canadese e portare via quello che c’è perché tanto i canadesi tengono la porta aperta. Non è furto?

Se un informatore come Gola profonda (all’anagrafe William Mark Felt) decide di mettere il proprio lavoro e la propria vita in gioco per diffondere un’informazione, lo fa per una ragione: conserva quella notizia come un bene prezioso, la consegna in un parcheggio buio della Virginia ai due giornalisti più ambiziosi e incoscienti che conosce, e fa in modo che quella informazione abbia un percorso sensato, uno scopo, un indirizzo e un contesto. Non è un santo ma è una persona, ha uno scopo, e se i suoi scopi convergono con quelli di chi vuole lavorare quella notizia in un rapporto di reciproco riconoscimento e responsabilità, si può arrivare anche alle dimissioni del presidente degli Stati Uniti.

I dati rubati alla Sony sono molto semplicemente refurtiva, e vengono da luoghi e contesti che non hanno a che fare con il pubblico. Certo che qualcosa di “notiziabile” dentro c’è, figuriamoci, ma il punto non è quello. Il punto è che trafugare delle conversazioni private per mostrare al mondo lo scandalo del sessismo, del razzismo, di questo o quel tono o contenuto è utile per vendere copie o clic, ma non è cruciale. Nelle vite di ciascuno di noi, così come nella comunicazione di una azienda, ci sono informazioni che non sono intese per la diffusione in pubblico. Così è e così sarà sempre.

Se dentro a queste conversazioni ci sono dei temi veri, delle notizie, arrivarci nel modo tradizionale è più difficile, magari ci vogliono mesi. Ma la notizia cresce nel lavoro giornalistico come un processo dinamico, un lavoro che è fatto sempre, anche quando c’è tanta azione, compresi rischi, trincee, bugie e reati, di scelte consapevoli e ragionamenti. Se frugo nei cassetti, li svuoto, prendo tutta la refurtiva e poi cerco, qualcosa troverò di certo, ma resterà comunque refurtiva.

E allora potrò raccontarmi che sono come quei due giornalisti del Washington Post che presero informazioni riservate dell’Fbi e le resero pubbliche portando alle dimissioni del presidente. In realtà sono esattamente come gli altri, quelli che nell’estate del 1972 entrarono nottetempo nel Watergate Hotel a rubare i documenti del Partito democratico, per sputtanarlo a tutti i costi in un modo o nell’altro.

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