15 gennaio 2015 16:54

Biancorosso, Kōhaku, è il Sanremo giapponese: è la manifestazione televisiva canora più famosa, antica e vista della tv nipponica. È anche un prodotto Nhk, che per natura e tono è esattamente la Rai, anzi nello specifico è proprio Rai Uno. I programmi moderni li fanno altrove, e i programmi un po’ patinati e coi capelli rosa come i vecchi (categoria antropologica qui rigorosamente munita di scarpe da ginnastica) sono spesso Nhk.

Il capodanno giapponese è una specie di Natale europeo, non nel senso dei regali ma per la relazione con la festa e la sua natura casalinga e familiare. A capodanno i giapponesi stanno a casa, sbevazzano, mangiucchiano, e poi vanno al santuario. Lì la gente del quartiere fa per tradizione il mochi, la pasta di riso glutinoso battuta nel mortaio, tirata a panetta, condita con composta di fagioli rossi. Preparata e mangiata quella, ci si dice buon anno, si fa una rapida preghiera molto laica e molto veloce (sei secondi), si beve se si vuole una specie di vin brulé locale, cioè sakè caldo dolcissimo e lattiginoso, e si torna a casa. Così funziona. A Tokyo, se non fa il freddo che faceva quest’anno, si può deviare verso Asakusa al tempione buddista a mangiare schifezze e stare nel casino.

Prima di quel momento in televisione c’è Kōhaku Uta Gassen, “la gara canora dei bianchi e dei rossi”, dove i rossi sono le femmine e i bianchi sono i maschi, che è un po’ il Sanremo del Sol Levante, come direbbero i giornali italiani. Approfitto per far notare che Sol Levante non è un modo di dire come “la Grande Mela” per New York o “il Duca Bianco” per David Bowie: Giappone, Cipango, Nippon, Nihon, insomma questo arcipelago di migliaia di isole che sta in fondo alla cartina si chiama proprio così. Il Giappone ha il nome che gli hanno dato i cinesi: il punto di vista di chi lo descrive è la Cina, quindi è del sole “NI” l’origine “HON”, il sol levante, insomma, l’est della Cina. La Cina, per dire, è “il paese in mezzo”, Chūgoku.

Kōhaku dura quattro ore abbondanti, e quest’anno era alla sua sessantacinquesima edizione; nei primi anni era ovviamente un programma radiofonico. L’estetica è molto simile a quella di un evento estivo di Rai 1, un premio, una festa locale, quel tipo di show che a un certo momento vedono la partecipazione del sindaco o dell’assessore che consegnano un premio. Le luci sono tendenzialmente sparatelle, smarmellamenti generali, niente di particolarmente studiato e chiaroscuro. La nostra tv, anche la più popolare, è senza dubbio più “bella”.

Le canzoni si susseguono, e sono circa una cinquantina, di ogni tipo. Questa è la prima differenza sostanziale. Pensate ai Club Dogo, poi Al Bano, poi Milva, poi Fabri Fibra, poi Moreno, Negramaro, Paoli, Ligabue, Jovanotti. C’è tutta la musica che ha avuto successo nell’ultimo anno, senza bisogno di siparietti. Le esibizioni sono come videoclip, con luci, fumi, effetti a spese dei cantanti e delle loro case discografiche. Sachiko Kobayashi, una cantante di enka, il melodico tradizionale qui molto rappresentato, è sempre stata la regina delle messe in scena (purtroppo da qualche anno non partecipa più a Kōhaku per sfumata popolarità) con esibizioni come questa o questa:

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Per tanti versi Kōhaku è un programma simile ai programmoni fiume della tv italiana che non esistono in nessun altro paese: dirette settimanali tra le tre e le quattro ore, che occupano abbondantemente due o tre fasce di palinsesto. Ci sono tutti i momenti che ti aspetti in un programma europeo o americano del genere: c’è la canzone dedicata al cantante morto nell’ultimo anno, il momento commovente del brano che parla di Fukushima e del terremoto, la vecchia gloria, il giovane emergente, il ricordo dei morti e la celebrazione dei nuovi fenomeni comici e musicali. C’è anche Funassyi (si legge *funasci), l’amatissimo pupazzo pera dai movimenti inafferrabili.

Per il resto la tv giapponese è molto diversa dalla nostra. Per prima cosa è diversa nel quadro, perché lo schermo televisivo non è mai libero come da noi, dove in genere ci può essere un logo e al massimo un sottopancia. In Giappone i programmi sono quasi sempre registrati e sottotitolati. Sono anche pieni di sovraimpressioni e riquadri: ogni volta che si manda un contributo, quello che noi chiameremmo un rvm, in un quadratino in un angolo dello schermo si ammira la reazione al filmato degli ospiti in studio.

È una tv molto lavorata, insomma, molto postprodotta. Solo i documentari naturalistici o altri eventi come i concerti di musica classica sono puliti a fino e impeccabili da togliere il fiato. Il resto è un susseguirsi di contenitori non troppo lunghi, pacati nel tono, dove si commentano insieme dei servizi o qualcosa che accade dal vivo in studio.

Se nella pezzatura e nella struttura Kōhaku è più simile alla nostra tv, rimane una differenza enorme: la tecnica. Nel corso delle 4 ore ci sono state 50 canzoni, quasi tutte cantate su base, quindi con infiniti microfoni, band anche di decine di elementi come le AKB48. Si sono collegati due volte in diretta con gli Stati Uniti, e due volte con altre città del Giappone dove altrettante band stavano suonando dal vivo. Mai nel corso di tutta la diretta ci sono stati un problema tecnico, un secondo di buco, una battuta al posto sbagliato. Niente. Mai un microfono che non è ancora aperto, mai uno che è ancora aperto mentre il cantante esce dal palco dopo avere finito di cantare, e dice qualcosa che non si sarebbe dovuto sentire. Mai una inquadratura sbananata. Mai uno sfocato. Tutto tecnicamente ineccepibile in un modo sinceramente impossibile per la nostra tv. Tutti evidentemente sanno cosa fare, e lo fanno come si deve. È un po’ il bello del Giappone.

Il televoto ha sancito la vittoria di misura della squadra bianca, quella dei maschi.

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