08 marzo 2016 17:08

Croce e delizia. Per il Partito democratico (Pd) le primarie sono questo. Da più di dieci anni ormai il voto dei cittadini influisce sulla vita del partito, anche se in maniera altalenante: in molti casi si sono rivelate occasioni di grande mobilitazione, occasioni anche di scelte vincenti, da Nichi Vendola in Puglia a Romano Prodi candidato dell’Unione nel 2006, da Giuliano Pisapia a Milano al cagliaritano Massimo Zedda a Ignazio Marino, candidato a Roma nel 2013 dopo aver vinto delle primarie a cui parteciparono centomila elettori.

Ma in molti altri casi le primarie hanno avuto un esito opposto, rivelandosi o un mezzo flop o una contesa lacerante. Sono indimenticabili i casi di Napoli del 2011, con le primarie alla fine annullate per le troppe irregolarità (e la conseguente vittoria alle elezioni comunali di Luigi de Magistris in un ballottaggio che vide escluso il Pd), e il caso Liguria, dove alle primarie si affermò in condizioni assai dubbie Raffaella Paita, con conseguente spaccatura del Pd e del centrosinistra tutto e, alla fine, con la vittoria del berlusconiano Giovanni Toti alla regione.

E dove mettiamo, allora, le primarie dello scorso 6 marzo, a cominciare da quelle di Roma? Non hanno portato a grandi mobilitazioni né a grandi lacerazioni, hanno visto il numero dei partecipanti dimezzato rispetto al 2013, insomma: se non erano un flop erano un mezzo flop.

Tutt’altro, sostiene Matteo Orfini, presidente del Pd e commissario del partito a Roma. Secondo lui il risultato di tre anni fa era stato gonfiato da “file di rom” e manipolato dai capibastone di Mafia capitale che mandavano avanti le loro “truppe cammellate”. Viene da chiedersi dov’era Orfini allora. Sembra quasi che parli di un altro partito rispetto a quello in cui ha (e aveva) ruoli dirigenti. E si permette anche di ironizzare sui grillini che con “pochi clic” si scelgono la loro candidata.

Vanno bene tutti i metodi, purché siano trasparenti e democratici

Ma con le ironie (del resto reciproche) tra piddini e grillini sulla scelta dei candidati non si verrà mai a capo della questione su come scegliere in modo partecipato e pulito i candidati alle elezioni. Va detto subito che vanno bene tutti i metodi, purché siano trasparenti e democratici: quello di un partito strutturato che fa votare i suoi delegati, quello di un movimento che interpella solo i suoi iscritti, quello di un partito più “liquido” che lascia la decisione ai suoi seguaci.

Non vedo quindi motivi di polemizzare contro la scelta di Virginia Raggi da parte degli iscritti al Movimento 5 stelle, come non vedo motivi di mettere in dubbio il voto per Roberto Giachetti da parte dei simpatizzanti romani del Pd. Non credo infatti che Denis Verdini con la sua Ala abbia messo le ali a Giachetti: il gruppetto di Verdini, in fin dei conti, probabilmente conta più rappresentanti che rappresentati.

Polemiche invece si potrebbero aprire – e sarebbe interessante sapere il parere di Orfini, tanto severo con i vecchi “capibastone” romani – sul caso Napoli. Sul sito fanpage.it si vedono immagini inequivocabili di personaggi che si aggirano davanti ai seggi, contanti in mano, e orientano gli elettori dandogli istruzioni tipo “devi votare ‘a femmena!”. Inutile dire che un voto così è compromesso in partenza.

Infatti il Pd può vantare, a ragione, il fatto di lasciare la scelta dei suoi candidati alla platea vasta dei suoi simpatizzanti, ma, allo stesso tempo, in dieci anni non è riuscito a definire in maniera convincente le regole per fare delle primarie una scelta inconfutabile – a cominciare dalle regole da applicare nei casi in cui è palese una stortura.

Se si lascia la scelta alla base, alla gente, quel popolo le sue scelte le fa

Non è un esercizio facile. Le primarie sono e rimangono un’arma a doppio taglio. In questi giorni ce lo conferma l’esempio degli Stati Uniti. Grazie alle primarie, forze “fresche” (spesso sopra i settant’anni) vedono ottime affermazioni anche contro l’establishment dei rispettivi partiti, dal democratico Bernie Sanders al repubblicano (iscritto al partito solo di recente) Donald Trump. Ma in fondo il caso di Matteo Renzi non era poi così differente: anche lui conquistò la leadership del Pd contro l’establishment del partito.

È questo un rischio ineliminabile – o una chance, a seconda dei punti di vista – insito nelle primarie. Se si lascia la scelta alla base, alla gente, quel popolo le sue scelte le fa. La chance è ovvia: si affermano candidati vincenti, candidati che dimostrano di avere presa sull’elettorato. Ma proprio qui sta anche il rischio: nel migliore dei casi vince un esponente serio e allo stesso tempo legato al suo elettorato, nel peggiore si afferma il candidato improvvisato e dalla parlata suadente, l’impostore, il demagogo di turno: in breve, il Donald Trump della situazione.

Guardando gli Stati Uniti

Non è un problema solo italiano. Infatti l’Italia ha la fortuna di non aver (ancora) visto politici del calibro di Trump. Rispetto a lui non solo Berlusconi, ma anche Matteo Salvini e compagnia bella sono esempi di rettitudine democratica. Ma salta agli occhi un fatto stupefacente se guardiamo gli Stati Uniti. Lì la polemica sulle regole è del tutto assente. Mitt Romney, il candidato alle ultime presidenziali per i repubblicani, se la prende con Donald Trump usando toni più che ruvidi. Incolpa il miliardario dall’improbabile ciuffo biondo di essere un bugiardo imperterrito, fa domande sui fallimenti delle sue imprese e sulle sue dichiarazioni delle tasse – ma non insinua che abbia infranto le regole.

Quella delle regole infatti è la vera frontiera che un partito votato alle primarie deve affrontare. Chi partecipa, a che titolo, come evitiamo le intrusioni, le manovre pilotate, le truppe cammellate? Sono queste le domande essenziali cui un partito serio deve rispondere. E deve dare le sue risposte a priori, non a posteriori – come fa Orfini, con il lieve ritardo di tre anni – se vuole evitare lacerazioni e spaccature. Deve dare risposte convincenti, deve spiegare per quale motivo furono annullate le primarie di Napoli, ma non quelle delle Liguria. Perché le primarie, una volta che le regole e i risultati sono rispettati da tutti i contendenti, non sono mai un flop. Al massimo sono un brutto colpo per qualcuno.

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