04 novembre 2015 11:44

Sono passati vent’anni e Benjamin Netanyahu non ha ancora chiesto perdono a Dalia Rabin. Lei, forse, lo perdonerebbe. Sono vent’anni che aspettiamo questa richiesta, e il sangue di Yitzhak grida vendetta dalla terra. Non riposerà in pace finché non saranno offerte, e accettate, delle scuse.

Per vent’anni abbiamo nascosto la questione come polvere sotto il tappeto. Vogliamo solo andare avanti con le nostre vite. È questa la ragione dietro all’assurdo consenso per non mettere sotto inchiesta chi ha guidato la terribile campagna d’odio che ha portato all’uccisione di Rabin. Ma non basta. La ferità non si rimarginerà mai.

In tutti questi vent’anni non sono mai stati interrogati i rabbini che chiamavano Rabin un moser (informatore), una definizione che, secondo la legge rabbinica, prevede una condanna a morte. Oppure i leader dei coloni che lo hanno definito un traditore, una definizione che comporta l’impiccagione. Non sono mai stati indagati i responsabili delle cerimonie cabalistiche, le pulsa denura, con cui hanno lanciato una maledizione su Rabin invocando per lui una morte crudele.

Né sono mai stati messi in discussione quei politici, importanti esponenti del Likud, primo tra tutti Benjamin Netanyahu, che sono apparsi su un balcone a Zion Square, a Gerusalemme, infiammando la folla. Avevano visto i manifesti che ritraevano Rabin vestito con un’uniforme delle Ss, ma non hanno protestato, fermato o condannato quanti gridavano “assassino”, “traditore” o “nazista”. E poi c’è stata la manifestazione del 1994 a Ra’anana, guidata da Netanyahu, durante la quale alcuni uomini trasportavano una bara coperta da un velo nero e con sopra il nome di Rabin.

Una manifestazione contro il primo ministro Yitzhak Rabin e gli accordi di Oslo a Hebron, il 28 settembre 1995. (Jim Hollander, Reuters/Contrasto)

È vero, Netanyahu non voleva un omicidio. Non s’immaginava che l’istigazione si sarebbe conclusa così. Ma questa sa come guidare la mano verso il coltello o il dito al grilletto. Netanyahu sa bene dove porta l’instabilità fomentata a proposito della moschea Al Aqsa di Gerusalemme.

A dire il vero, c’è stato un politico che aveva capito a cosa avrebbe portato tutta questa istigazione. Chiese alla folla di moderare i toni, ma a quel punto la folla si rivoltò contro di lui, cominciando a fischiarlo, e lui scese dal palco. Quella persona era David Levy, l’ex ministro degli esteri del Likud che, anche solo per questo, si è guadagnato un posto d’onore nella storia.

Poi sono venute le elezioni del 1996, alle quali Netanyahu ha sconfitto Shimon Peres per un soffio (trentamila voti). Per questo è chiaro che se ci fosse stato Rabin, che era molto più popolare di Peres, ad affrontare Netanyahu, avrebbe vinto facilmente, portando avanti il processo di Oslo. Oggi ci troveremmo in una situazione completamente diversa: in pace e con accanto uno stato palestinese.

Con Netanyahu al potere, i palestinesi non hanno niente da perdere. Non hanno alcun orizzonte né alcuna speranza

La destra sostiene che gli accordi di Oslo hanno prodotto solo vittime e morte. È vero il contrario. Quegli accordi sono stati fatti a pezzi da Netanyahu immediatamente dopo che è salito al potere, nel 1996. Ha aperto il tunnel sotto il muro occidentale, infiammando Gerusalemme, ha provocato un bagno di sangue in Cisgiordania, espanso gli insediamenti, eroso il rapporto di fiducia con Yasser Arafat e volontariamente distrutto ogni possibilità di ulteriore attuazione degli accordi. È questo il motivo di tutti gli attacchi terroristici, tutti gli omicidi e gli accoltellamenti che sono seguiti. Con Netanyahu al potere, i palestinesi non hanno niente da perdere. Non hanno alcun orizzonte né alcuna speranza, solo occupazione, prepotenza, sottrazione di terra, povertà e disoccupazione.

Non molti lo sanno, ma all’epoca Rabin stava anche discutendo col presidente siriano Hafez Assad un possibile accordo di pace. Basterebbe solo ricordare come sia stato in grado di creare delle straordinarie basi di fiducia con re Hussein di Giordania, che hanno poi portato a un accordo di pace nel 1994, per comprendere la sua strategia: la pace porta sicurezza.

Se fosse stato vivo e ancora primo ministro nel 2002, non si sarebbe mai lasciato scappare l’Iniziativa di pace araba. Avrebbe afferrato quell’opportunità con entrambe le mani, usando gli interessi reciproci che abbiamo con Egitto, Arabia Saudita, Giordania e gli stati del golfo per combattere insieme l’islam radicale e omicida.

Tutto il contrario di Netanyahu, che non può fare a meno di paura, odio, guerra e disperazione, come ha dichiarato egli stesso appena una settimana fa, citando il libro di Samuele: “La spada divorerà in eterno? Se abbassiamo la nostra spada, la loro ci consumerà”. Questa è la sua visione.

Ripensandoci, forse, non c’è motivo di aspettarsi che chieda perdono.

(Traduzione di Federico Ferrone)

Questo articolo è stato pubblicato da Haaretz. Per vedere l’originale clicca qui.

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