10 novembre 2011 11:19

Libri letti

Hellhound on his trail, Hampton Sides

L’indice della paura, Robert Harris

Next, James Hynes


Libri comprati

Stone Arabia, Dana Spiotta

Kings of infinite space, James Hynes

La cascata, Margaret Drabble

To live outside the law, Leaf Fielding

Mentre scrivo è agosto, e a Londra e in altre città inglesi demoliscono i palazzi bruciati dopo molte notti di teppismo violento e inquietante. Nel frattempo io sono in un paesino del Dorset, Burton Bradstock, e sento le onde del mare infrangersi sulla riva battuta dal vento, mentre la bambina di un amico suona e risuona all’infinito Chopsticks al pianoforte della casa in collina che abbiamo affittato. Probabilmente le rivolte inglesi non sarebbero mai finite sulle pagine di questa rubrica se non fosse stato per Hell­hound on his trail, il libro di Hampton Sides sull’omicidio di Martin Luther King e la caccia al suo assassino, James Earl Ray.

Perché proprio mentre i quartieri di Tottenham e Hackney venivano dati alle fiamme a pochi chilometri da casa mia, io stavo leggendo che la stessa cosa succedeva a Washington la sera del 5 aprile 1968, ventiquattr’ore dopo che Ray aveva sparato a King sul balcone del motel Lorraine a Memphis. Quella notte, in città furono appiccati cinquecento incendi: il pilota che riportava nella capitale il ministro della giustizia Ramsey Clark, da Memphis, pensò che sembrava di sorvolare Dresda. E qui a Burton Bradstock era praticamente impossibile non paragonare la Londra del 2011 alla Washington del 1968.

Non era un paragone istruttivo o utile, certo, perché poteva solo far venire nostalgia per un tempo in cui l’incendio doloso sembrava essere il modo migliore, oltre che l’unico, per dare voce a una rabbia legittima e impotente. E anche se i disordini inglesi sono stati innescati da una morte violenta (l’uccisione da parte della polizia di un nero, Mark Duggan), non sembrava che ci fosse l’indignazione sui volti dei bianchi invasati che facevano incetta di gadget elettronici e scarpe da ginnastica grottescamente costose. Fortunatamente per noi, ogni politico, giornalista, portaborse, conduttore di talk show e titolare di una rubrica di posta in Gran Bretagna sa perché è successo tutto questo, quindi dovremmo stare tranquilli.

Hellhound on his trail è un libro avvincente, auto­revole e sconfortante su un periodo in cui forse era più facile stabilire con sicurezza cause ed effetti. James Earl Ray, l’assassino di King, era un grande sostenitore del segregazionista George Wallace e della sua corsa indipendente alla Casa Bianca. Ma vedeva di buon occhio anche il regime di apartheid di Ian Smith in Rhodesia. Alla fine fu arrestato all’aeroporto di Heathrow mentre cercava di fuggire in qualche paese africano dove gli avrebbero permesso di sparare ai neri senza fare tante storie come negli Stati Uniti. Sides ha pochi dubbi sul fatto che Ray abbia agito da solo, e una delle cose più tristi del libro è che ci ricorda, se mai ce ne fosse bisogno, quanto sia facile uccidere un uomo. Non serve la collaborazione segreta della Cia, dell’Fbi o del Ku Klux Klan: basta potersi permettere un fucile da caccia.

Naturalmente ci sono un sacco di persone che hanno tutto l’interesse a convincerci che il passato recente è più facile da capire del presente. Era un po’ che Paul Greengrass, il regista di Green zone e United 93, voleva fare un film sugli ultimi giorni di Martin Luther King, ma quest’anno il progetto è sfumato, perché sembra che chi controlla l’eredità di King non abbia apprezzato i riferimenti alle sue relazioni extraconiugali. “Tutto inventato”, ha dichiarato Andrew Young, che era con King la notte in cui morì. Eppure, secondo Sides, King era davvero un donnaiolo instancabile: trascorse la notte prima di morire nella stanza 201 del motel Lorraine con una delle sue amanti, l’allora senatrice del Kentucky Georgia Davis, che ha perfino scritto un libro, I shared the dream, sulla sua relazione con King. Io non ho letto la sceneggiatura di Greengrass, ma sembra che Andrew Young, quarant’anni dopo Memphis, stia cercando di santificare la memoria del suo amico in un modo che può solo ostacolare la comprensione dei fatti.

Nel frattempo, a ostacolarla ci ha provato Jesse Jackson: ha detto ai giornalisti della tv che si trovava con King sul balcone (non è vero). Secondo Sides, ha intinto la sua camicia nel sangue di King per poi indossarla in diversi talk show. Il problema della storia, secondo me, è che ci sono sempre troppe persone coinvolte: la prossima volta che succede qualcosa di storico, qualcuno dovrebbe ridimensionare il cast. Oh, a proposito, lo sapevate che James Earl Ray fu arrestato a Londra dagli investigatori di Scotland Yard? Eh già. Però gli americani avevano preparato il terreno, questo glielo possiamo concedere.

Il mese di letture è stato abbastanza deprimente, diciamolo, anche perché mio cognato ha scritto un altro romanzo. L’indice della paura è il quinto da quando ho cominciato questa rubrica, nel 2003. Io ne ho scritti solo tre, nello stesso periodo, anche se in mezzo sono riuscito a infilarci una sceneggiatura, ma ci è riuscito pure lui. In questo momento è steso ai bordi di una piscina nel sud della Francia, mentre io guardo dalla finestra il grigio mare del Nord. Lo guardo dalla finestra perché: a) con il vento che c’è, se mi avventurassi fuori ci finirei dentro, al grigio mare del Nord; b) ho una rubrica da scrivere, io. E qui sta la causa ultima della produzione letteraria di mio cognato e del fatto che guadagna più di me. Ormai questa rubrica ha superato le centomila parole, e se potessi in qualche modo riprenderle e ricomporle in un thriller contemporaneo elegante, ingegnoso, avvincente e intelligente, lo farei volentieri. Ma ci siete voi lettori. La responsabilità che sento nei confronti della vostra salute letteraria è così grande che sono pronto a lasciare tremare di freddo i miei figli nelle loro tutine subacquee, anche se dubito che mi ringrazierete per questo.

Vorrei potervi dire che L’indice della paura è un clamoroso fiasco e giacerà in cumuli di copie invendute sparsi per tutta l’Europa e gli Stati Uniti, ma non posso. Un momento: perché no? La rubrica è mia, e scriverla offre ben pochi altri vantaggi, come ormai mi è finalmente diventato chiaro. L’indice della paura è un clamoroso fiasco e giacerà in cumuli di copie invendute sparsi per tutta l’Europa e gli Stati Uniti. Non vi dirò di cosa parla. Vi verrebbe voglia di comprarlo.

Ma forse non mi sbilancio troppo se vi dico che è un giallo incentrato sulla crisi finanziaria ed è il secondo libro che leggo in due mesi sulla spaventosa instabilità del nostro sistema bancario. L’altro era il bellissimo Whoops! Why everyone owes everyone and no one can pay di John Lanchester, in cui si legge che “le democrazie liberali occidentali sono le migliori società mai esistite e i loro cittadini sono, nel complesso, gli individui più fortunati mai vissuti”. Non è che ci siano grandi svantaggi a essere le persone più fortunate della storia, ma nel bel romanzo Next, di James Hynes – che ho letto perché i curatori di The Believer gli hanno dato un premio – il protagonista, Kevin Quinn, ha una cinquantina d’anni ed è in crisi, almeno come può esserlo chi vive nell’America ricca di oggi: la sua carriera è arrivata lentamente e senza grandi contraccolpi a un punto morto, e lui ha una relazione con una donna più giovane di cui non è innamorato. Trascorre la maggior parte del tempo, o almeno la maggior parte delle otto o nove ore raccontate nel romanzo, fantasticando su un paio delle migliori esperienze sessuali della sua vita.

Quinn è in viaggio da Ann Arbor, in Michigan, ad Austin, in Texas, per un colloquio di lavoro proprio nel giorno in cui ci sono stati alcuni gravi attacchi terroristici in Europa. È preoccupato, in volo, come capita a tutti in momenti del genere, ma questo non gli impedisce di fare delle fantasie sulla ragazza asiatica, giovane e sexy, seduta accanto a lui sull’aereo. E quando s’imbatte nuovamente in lei ad Austin, comincia a seguirla senza uno scopo preciso né alcun intento minaccioso, per occupare il tempo che gli resta prima del colloquio. Si eccita parecchio e si smarrisce ancora di più, sia ad Austin sia nel proprio passato opprimente e pieno di rimorsi. Suona tutto molto reale e familiare, almeno a questo maschio ultracinquantenne.

Hynes dà voce a quell’inesauribile chiacchiericcio interno, consapevole e culturalmente accurato, che riporta alla mente i due monumentali romanzi di David Gates, Jerningan e Preston falls, e non saprei trovare credenziali migliori: Hynes e Gates popolano i loro libri di uomini che riconosco. Non sono le creature paurosamente intelligenti, e a me estranee, che si incontrano nei Grandi Romanzi Americani dei Grandi Romanzieri Americani. C’è meno rabbia, più dubbio, più rimpianto e, nel caso di Kevin Quinn, più consapevolezza di essere il solo artefice della propria sventura. Il suo fallimento non può essere imputato a un evento o a qualche virago manipolatrice. Piuttosto, è dovuto a un eccesso d’introspezione, distrazione, mancanza di disciplina. Quinn non si è mai applicato abbastanza a niente.

E alla fine Next prende una piega sconcertante, struggente, apocalittica e allo stesso tempo con un’inaspettata aria di redenzione. Come scopriremo, certe atrocità non sono confinate a piccoli e remoti paesi europei. Mentre Kevin sta finalmente andando al suo colloquio di lavoro, il tassista ascolta alla radio le notizie di attacchi ben più vicini a casa sua, in Minnesota, dove ha un fratello: per questo è nervoso, distratto, sconvolto. Fa una serie di telefonate frenetiche. Ma Kevin neanche se ne accorge: sta rivivendo con la fantasia, e in dettaglio pornografico, una notte passata tanti anni prima con una ragazza di nome Linda. Alla fine della corsa, il tassista gli dice un micidiale “Deve stare attento, amico”. Ma per Kevin è troppo tardi.

Morti violente avvengono in tutti e tre i libri di cui ho parlato finora: in effetti, non ricordo un mese di letture più stressante di questo. E sono quasi tutte morti profondamente angoscianti, anche se in L’indice della paura mio cognato riesce a fare fuori una carogna che non piacerebbe a nessuno. Così, ho avuto bisogno di prendermi una pausa con il libro di Priscilla Gilman The anti-romantic child, che è serio ma non contiene spargimenti di sangue, e ci guadagna: in genere, scene di massacri indiscriminati non aiutano a migliorare l’autobiografia della madre di un bambino con difficoltà di apprendimento (ecco il genere di preziosi consigli che riceverete iscrivendovi alla mia scuola di scrittura on­line, di prossima apertura).

Come forse avranno notato i lettori abituali di questa rubrica, non leggo molti libri di testimonianze dirette su questo argomento, nonostante il fatto o forse proprio in virtù del fatto che anch’io sono padre di un figlio disabile. Le ragioni sono diverse e con alcune ho la sensazione di avervi già ammorbato abbastanza, quindi per stavolta passo. Comunque, vorrei osservare che è difficile trovare libri di questo genere che contengano idee, e qui sta la forza di The anti-romantic child. È un libro che non parla solo della situazione con cui l’autrice ha dovuto fare i conti: parla anche di letteratura, e in particolare di Wordsworth e dei romantici, e di come gli eroi letterari di Gilman (che una volta insegnava) l’abbiano insieme aiutata e ostacolata nella comprensione di quello che suo figlio è, e di quello che lei avrebbe voluto che fosse. È un libro intelligente, profondo e coinvolgente, e mi ci sono ritrovato. Ho anche finito per leggere più Wordsworth di quanto avessi mai fatto in vita mia. Ora capisco meglio perché piace così tanto, anche se resto convinto che in quelle poesie ci sia più dello stretto necessario sul mondo naturale.

Non ho letto quanto avrei voluto, mentre ero nel Dorset. Forse è normale se inviti 35 bambini in vacanza a casa tua (vorrei tanto che il numero fosse uno scherzo, ma non lo è). In compenso, ho scoperto un nuovo prodotto, la Waboba ball, una palla che rimbalza sull’acqua ed è una vera bomba. Non so se riuscirei a trovargli delle qualità letterarie e questo significa che potrebbe essere fuori luogo in questa rubrica.

Ma noi collaboratori di The Believer abbiamo scoperto di avere un’enorme influenza sulle vendite di certi prodotti ricreativi: ogni volta che ne nominiamo uno siamo bombardati di richieste di campioni gratuiti, viaggi esotici in resort caraibici eccetera. Ho il sospetto di essermi appena esposto, del tutto inavvertitamente, a ogni sorta di offerta allettante ma corruttrice. Qualche Waboba ball non mi ripagherà della vacanza in una villa sulla Costa azzurra che mi sono giocato per questa rubrica, ma il Waboba surf, presto in vendita nei migliori negozi, potrebbe anche andar bene.

*Traduzione di Diana Corsini.

Internazionale, numero 922, 4 novembre 2011*

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