09 settembre 2015 12:24

Lavorare meno per lavorare meglio. Non è solo l’ultima moda delle aziende tecnologiche statunitensi ma, come ha spiegato Oliver Burkeman, una strategia per aumentare benessere, produttività e qualità del lavoro. A dimostrazione di questo, in Europa sono i greci a lavorare più di tutti, con circa duemila ore all’anno in media, mentre in Germania si lavora mediamente 1.400 ore – ma la produttività è di circa il 70 per cento più elevata.

Eppure lavoriamo sempre di più. I dati Ocse mostrano una diminuzione dell’orario lavorativo nei paesi cosiddetti economicamente avanzati: dalle 1.881 ore lavorate mediamente nel 1990 si è passati alle 1.770 del 2013. Si tratta di un’illusione ottica generata dalla progressiva polarizzazione dei mercati del lavoro: mentre si moltiplicano i contratti a tempo flessibile, infatti, aumentano le ore lavorate da chi ha un impiego a tempo pieno.

Questa tendenza, osservata originariamente nei paesi anglosassoni, è emersa negli ultimi decenni anche in Europa (con Francia e Scandinavia come parziali eccezioni) e coinvolge con maggiore intensità i lavoratori più qualificati: se la quota di persone con orari superiori alle 48 ore settimanali era aumentata negli Stati Uniti dal 14 al 20 per cento tra il 1979 e il 2006, tra gli occupati con una laurea questa percentuale arrivava, all’inizio degli anni 2000, al 39 per cento tra gli uomini e al 20 per cento tra le donne.

Secondo Keynes, la chiave per generare la liberazione dal lavoro doveva essere lo sviluppo tecnologico

Così, il lavoro aggredisce spazi originariamente riservati all’intimità personale, tanto da divenire in alcuni casi una vera e propria ossessione, o psicopatologia, che richiede la nascita di gruppi di sostegno anonimi e scale di valutazione del proprio livello di workaholism (dipendenza dal lavoro), come la Bergen work addiction scale illustrata nel 2012 dallo Scandinavian Journal of Psychology.

Con buona pace del filosofo britannico Bertrand Russell, che nel 1932 con il suo Elogio dell’ozio auspicava una giornata lavorativa di quattro ore, così da poter dedicare il resto del tempo alla coltivazione della conoscenza e delle arti. O dell’economista John Maynard Keynes, che due anni prima, nel suo saggio sulle Possibilità economiche per i nostri nipoti, calcolava che entro il 2030 sarebbe stato possibile ridurre la giornata di lavoro a tre ore, e intravedeva una società in cui il principale problema sarebbe stato quello di “vivere bene, piacevolmente e con saggezza”.

Sono tante le teorie avanzate per spiegare il completo fallimento della profezia keynesiana.

Da una parte c’è chi sostiene che le persone adorino lavorare, come il docente della Columbia university Edward Phelps, secondo cui “la carriera fornisce la più larga porzione, se non l’unica, dell’autorealizzazione che è possibile ottenere nella società moderna”. Una tesi che certo non può essere valida per tutte le categorie di lavoratori, e che ha un riscontro parziale nei dati – a giudicare dal fatto che solo il 19 per cento del 75 per cento di lavoratori statunitensi che hanno ricevuto email lavorative durante le vacanze dichiara di esserne contento.

Secondo altri, come il premio Nobel per l’economia Gary Becker, l’errore di Keynes potrebbe essere ancora più grossolano.

La ricchezza dell’aristocrazia britannica, di cui lo stesso Keynes era membro, basava il suo benessere sulla rendita fondiaria e altre forme di capitale, mentre nell’economia moderna la ricchezza è detenuta sotto forma di capitale umano, che crea valore attraverso il lavoro. Ecco perché sarebbero proprio i più istruiti, oggi, a lavorare di più: perché detengono più capitale umano e, di conseguenza, per loro il costo-opportunità di un’ora passata a oziare è molto alto. Un ragionamento che vale solo nella misura in cui si considera che non ci sia, né ci debba essere, un limite ai desideri di consumo.

Iniqua distribuzione dei benefici

In realtà, secondo Keynes, la chiave per generare la liberazione dal lavoro sarebbe stato lo sviluppo tecnologico. Aumentando la produttività di ogni lavoratore, l’innovazione tecnica avrebbe infatti accresciuto il valore aggiunto prodotto da ogni occupato; conseguentemente sarebbe cresciuto il suo salario e, con esso, la possibilità di guadagnare l’occorrente per una vita agiata pur lavorando meno ore.

Non aveva torto. Secondo l’ufficio delle statistiche sul lavoro degli Stati Uniti, grazie alle progressive innovazioni un lavoratore statunitense può produrre oggi in 11 ore la stessa quantità di beni che nel 1950 era prodotta in una intera settimana di lavoro.

Ma la profezia di Keynes non aveva considerato quanto iniquamente sarebbero stati distribuiti i benefici dell’innovazione. Il marcato aumento della produttività registrato nel corso degli ultimi decenni è stato infatti accompagnato, in particolare dagli anni ottanta fino alla sua stagnazione negli anni recenti, da salari reali di fatto fermi nella stragrande maggioranza dei paesi Ocse.

Un andamento visibile anche negli ultimi 14 anni, come mostrato dal grafico basato su dati dell’Organizzazione internazionale del lavoro, e che coinvolge anche l’occupazione – che ha smesso, in particolare negli Stati Uniti, di essere positivamente correlata con la crescita della produttività.

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Una dinamica alla base delle enormi diseguaglianze contemporanee, e un’appropriazione di valore aggiunto da parte dei detentori dei mezzi di produzione di dimensioni tali che nemmeno Keynes poteva immaginare.

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