02 febbraio 2011 14:58

“Il mondo arabo è in fiamme”, ha detto Al Jazeera il 27 gennaio, e nella regione gli alleati occidentali “stanno rapidamente perdendo la loro influenza”.

L’onda d’urto è stata messa in moto dalla rivolta in Tunisia, che ha deposto un dittatore appoggiato dall’occidente, scatenando ripercussioni soprattutto in Egitto, dove i manifestanti hanno avuto la meglio sulla brutale polizia del dittatore.

Gli osservatori hanno paragonato gli eventi al crollo del potere russo nel 1989, ma ci sono importanti differenze.

Un aspetto cruciale è che tra le grandi potenze che appoggiano i dittatori arabi non c’è nessun Mikhail Gorbaciov. Washington e i suoi alleati, anzi, si attengono al principio in base a cui la democrazia è accettabile solo se obbedisce a obiettivi strategici ed economici: va bene in territorio nemico (fino a un certo punto), ma non a casa propria, a meno che non sia opportunamente addomesticata.

Un paragone con il 1989, però, ha una sua validità: la Romania, dove Washington ha sostenuto Nicolae Ceausescu, il più crudele dei dittatori dell’Europa dell’est, finché la sua lealtà è diventata indifendibile. A quel punto ne ha salutato la deposizione.

È un metodo standard: Ferdinand Marcos, Jean-Claude Duvalier, Chun Doo Hwan, Suharto e molti altri gangster. Potrebbe essere valido anche nel caso di Hosni Mubarak, insieme ai consueti tentativi di garantire che il prossimo regime non si allontani troppo dal sentiero autorizzato.

L’attuale speranza sembra essere il generale Omar Suleiman, il fedelissimo di Mubarak appena nominato vicepresidente dell’Egitto. Suleiman, da tempo a capo dei servizi segreti, è odito dal popolo in rivolta quasi quanto lo è lo stesso dittatore.

Pragmatismo americano

Un ritornello comune tra gli esperti è che la paura dell’islam estremista richiede una (riluttante) opposizione alla democrazia per motivi pragmatici. Se non del tutto priva di qualche merito, tale formulazione è fuorviante. La minaccia principale è sempre stata l’indipendenza. Nel mondo arabo gli Stati Uniti e i loro alleati hanno regolarmente appoggiato gli islamisti, a volte per fermare la minaccia del nazionalismo laico.

Un esempio noto è l’Arabia Saudita, il centro ideologico dell’islam estremista (e del terrorismo islamico). Un altro dei molteplici esempi è Zia ul Haq, il più brutale dei dittatori pachistani e il prediletto del presidente Reagan, che ha attuato nel suo paese un programma di islamizzazione radicale (con i fondi sauditi).

“L’argomentazione tradizionale - avanzata dentro e fuori il mondo arabo - è che va tutto bene, è tutto sotto controllo”, afferma Marwan Muasher, ex funzionario giordano e ora direttore delle ricerche sul Medio Oriente presso il Carnegie Endowment. “Con questo modo di pensare le forze consolidate sostengono che gli avversari e gli outsider che chiedono riforme ingigantiscono la situazione reale”.

Pertanto l’opinione pubblica può essere liquidata. La dottrina risale molto indietro e generalizza sempre e ovunque, anche all’interno degli Stati Uniti. Nell’eventualità di disordini potrebbero essere necessari dei cambiamenti tattici, ma sempre con un occhio alla ripresa del controllo.

Il vivace movimento democratico tunisino si oppone a “uno stato di polizia con scarsa libertà d’espressione e di associazione e gravi problemi per i diritti umani”, governato da un dittatore la cui famiglia è odiata per la sua venalità. Era questa la valutazione dell’ambasciatore americano Robert Godec in un dispaccio del luglio 2009 diffuso da Wikileaks.

Per alcuni osservatori, quindi, i documenti di Wikileaks “dovrebbero dare all’opinione pubblica americana la confortante sensazione che le autorità vigilano”: in realtà, i dispacci sono talmente favorevoli alla politica statunitense che è quasi come se sia stato lo stesso Obama a farli trapelare (o almeno così scrive Jacob Heilbrunn nel bimestrale The National Interest).

Una medaglia per Assange

“L’America dovrebbe dare una medaglia ad Assange”, scrive un titolo del Financial Times. Secondo Gideon Rachman, uno dei responsabili degli esteri, “la politica estera statunitense ne esce retta, intelligente e pragmatica”, perché “la posizione pubblica presa dagli Stati Uniti su ogni questione in genere è anche la posizione privata”.

In quest’ottica Wikileaks indebolisce i “teorici della cospirazione” che mettono in dubbio i nobili motivi regolarmente proclamati da Washington.

Il dispaccio di Godec supporta questi giudizi, almeno se non guardiamo oltre. Se invece lo facciamo, come scrive l’analista di politica estera Stephen Zunes su Foreign Policy in Focus, scopriamo, grazie alle informazioni di Godec, che Washington ha fornito dodici milioni di dollari di aiuti militari alla Tunisia. Si dà il caso che la Tunisia fosse uno dei soli cinque beneficiari stranieri: Israele (regolarmente), le due dittature mediorientali di Egitto e Giordania e infine la Colombia, che ha da tempo il peggior curriculum in materia di diritti umani e riceve il grosso degli aiuti militari americani all’emisfero.

La prova fornita da Heilbrunn è il sostegno arabo alle politiche statunitensi contro l’Iran, rivelate dai dispacci trapelati. Anche Rachman coglie questo esempio, come hanno fatto quasi tutti i mezzi d’informazione acclamando tali rivelazioni. Le reazioni dimostrano quanto sia profondo il disprezzo per la democrazia nel mondo della cultura.

Non si parla, però, di cosa pensa la popolazione, mistero facilmente risolto. In base ai sondaggi diffusi ad agosto dalla Brookings Institution, alcuni arabi concordano con Washington e con i commentatori occidentali sul fatto che l’Iran è una minaccia: il 10 per cento. La maggior parte, invece (77 e 88 per cento), considera Stati Uniti e Israele le principali minacce.

L’opinione araba è così ostile alle politiche di Washington che secondo la maggioranza (il 57 per cento) se l’Iran avesse le armi nucleari la sicurezza della regione aumenterebbe. Eppure “va tutto bene, è tutto sotto controllo” (come Marwan Muasher descrive l’illusione prevalente). I dittatori ci sostengono. I loro sudditi possono essere ignorati, a meno che non spezzino le catene e diventi necessario ritoccare la politica.

Altri dispacci trapelati sembrano appoggiare i giudizi entusiastici sulla nobiltà di Washington. A luglio del 2009 Hugo Llorens, ambasciatore statunitense in Honduras, ha informato Washington di un’indagine dell’ambasciata su “questioni legali e costituzionali riguardanti la destituzione violenta del presidente Manuel ‘Mel’ Zelaya del 28 giugno”.

L’ambasciata ha concluso che “non c’è dubbio che esercito, Corte suprema e Congresso abbiano cospirato per quello che è stato un golpe illegale e incostituzionale contro l’esecutivo”. Molto ammirevole, se non fosse che il presidente Obama ha rotto con quasi tutta l’America Latina e l’Europa appoggiando il regime golpista e ignorando le successive atrocità.

Le rivelazioni forse più importanti di Wikileaks, recensite dall’analista di politica estera Fred Branfman sul sito Truthdig, riguardano il Pakistan.

I dispacci rivelano infatti che l’ambasciata Usa sa che la guerra di Washington in Afghanistan e in Pakistan non solo accresce l’antiamericanismo dilagante, ma “rischia di destabilizzare lo stato pachistano” e addirittura di sollevare la minaccia dell’incubo supremo: che le armi nucleari possano cadere nelle mani dei terroristi islamici.

Ancora una volta le rivelazioni “dovrebbero dare all’opinione pubblica americana la confortante sensazione che le autorità vigilano” (parole di Heilbrunn), mentre Washington marcia gagliarda verso la catastrofe.

Traduzione di Stefania Di Franco

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