21 agosto 2011 10:04

“Che gli Stati Uniti siano ormai in declino e debbano affrontare la prospettiva di una totale decadenza è un’opinione sempre più condivisa”, scrive Giacomo Chiozza nell’ultimo numero di Political Science Quarterly. E ha ragione. Ci sono però alcune precisazioni da fare. Innanzitutto, il declino è cominciato in realtà quando gli Stati Uniti hanno raggiunto il loro apice, cioè dopo la seconda guerra mondiale. E poi questo declino è in gran parte autoinflitto. L’opera buffa andata in scena a Washington quest’estate nello scontro sul debito pubblico tra Obama e i repubblicani del congresso ha disgustato l’intera nazione e sconcertato il mondo. Lo spettacolo è stato così misero da spaventare persino gli sponsor di questa pagliacciata. Le grandi aziende temono, infatti, che gli estremisti che hanno messo ai posti di comando possano fare a pezzi il sistema che ha garantito loro tanto a lungo ricchezze e privilegi.

Il peso delle grandi aziende sulla politica e la società statunitensi ha raggiunto un livello tale che ormai entrambi i partiti sono schierati molto più a destra della popolazione. Per l’opinione pubblica il principale problema è la disoccupazione. Oggi la crisi dei posti di lavoro può essere superata solo attraverso un intervento significativo dello stato. Per le istituzioni finanziarie, invece, in cima alla lista dei problemi c’è il deficit. E dunque è solo di deficit che si discute. Secondo un sondaggio di Washington Post e Abc News una larga maggioranza della popolazione vorrebbe risolvere il problema tassando i più ricchi (72 per cento a favore, 27 per cento contro) mentre i tagli ai programmi sanitari scontentano gran parte degli americani.

Il Program on international policy attitudes (Pipa) ha studiato l’opinione degli americani sulle possibili soluzioni alla crisi del debito. Scrive il direttore del Pipa, Steven Kull: “È evidente che sia l’amministrazione Obama sia la camera a maggioranza repubblicana non sono in sintonia con le priorità dell’opinione pubblica sul bilancio. La differenza più netta sulla spesa pubblica è che le persone vorrebbero tagli sostanziali alla difesa, mentre Obama e la camera propongono un aumento dei fondi, anche se modesto. Inoltre, la popolazione chiede un contributo per la formazione, l’istruzione e il controllo dell’inquinamento molto più consistente rispetto a quello proposto sia dalla Casa Bianca sia dalla camera”.

Il “compromesso” finale tra il presidente e il congresso – cioè la resa incondizionata all’estrema destra – è l’opposto. Quasi certamente le scelte del governo porteranno a un ulteriore rallentamento della crescita, e nel lungo periodo danneggeranno tutti tranne i più ricchi e le grandi corporation.

Le ferite autoinflitte degli Stati Uniti non sono una novità. Il processo è cominciato negli anni settanta, quando l’economia del paese attraversava un periodo di grande cambiamento e la cosiddetta “età dell’oro” del capitalismo di stato volgeva al termine. All’epoca, le due novità fondamentali furono la finanziarizzazione (l’attenzione degli investitori spostata dalla produzione industriale alla finanza, alle assicurazioni e al settore immobiliare) e la delocalizzazione produttiva. Un altro colpo durissimo è arrivato quando il trionfo ideologico delle “dottrine del libero mercato” ha portato alla deregolamentazione, e la politica aziendale ha garantito ai manager bonus milionari per il raggiungimento di obiettivi a breve termine. La concentrazione di ricchezza che ne è seguita ha garantito alle grandi aziende un potere politico sempre maggiore. E così l’1 per cento della popolazione è arrivato a godere di una ricchezza sproporzionata, mentre il reddito reale della maggioranza dei cittadini è rimasto quasi fermo.

Intanto i costi delle campagne elettorali sono schizzati alle stelle, spingendo sia i democratici sia i repubblicani tra le grinfie delle corporation. Ciò che resta della democrazia è stato ulteriormente impoverito quando entrambi i partiti hanno cominciato a mettere all’asta i posti più importanti al congresso, come ha spiegato l’economista Thomas Ferguson sul Financial Times. “Fatto più unico che raro tra le democrazie dei paesi sviluppati, i partiti del congresso degli Stati Uniti fissano il prezzo per i ruoli chiave nel processo legislativo”. I parlamentari che garantiscono più fondi al partito ottengono il posto. E i fondi ovviamente vengono dalle lobby. E al diavolo il paese. Prima del crollo del 2007, del quale è stata largamente responsabile, la finanza aveva conquistato un potere economico enorme.

Dopo il crollo, tanti economisti hanno cominciato a mettere in discussione il loro ruolo. Il premio Nobel Robert Solow sostiene che l’impatto economico generale delle istituzioni finanziarie potrebbe essere negativo. “Probabilmente i loro successi aggiungono poco o nulla all’efficienza dell’economia reale, mentre i loro disastri fanno trasferire denaro dai contribuenti alla finanza”. Distruggendo le basi della democrazia, le istituzioni finanziarie la stanno uccidendo. E continueranno a farlo finché le loro vittime sceglieranno di soffrire in silenzio.

*Traduzione di Andrea Sparacino

Internazionale, numero 911 , 19 agosto 2011*

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