16 febbraio 2012 17:36

La separazione tra ciò che deve e non deve essere ricordato determina il destino degli anniversari. Gli eventi storici più importanti secondo la storia ufficiale vengono commemorati in pompa magna (un classico esempio è l’attacco di Pearl Harbor), mentre altri anniversari sono relegati all’oblio. Strappandoli alla “non storia”, possiamo imparare molto su noi stessi.

In questi giorni ricorre l’anniversario di un evento cruciale nella storia del genere umano, ma nessuno si preoccupa di commemorarlo: cinquant’anni fa il presidente John F. Kennedy autorizzava l’invasione diretta del Vietnam del sud, dando il via a quella che sarebbe presto diventata l’aggressione più criminale dai tempi della seconda guerra mondiale. Durante il conflitto le decisioni strategiche venivano prese in segreto, e ancora oggi le devastanti conseguenze delle azioni militari statunitensi sono ignote. Per fare un esempio, qualche mese fa è stato pubblicato Scorched Earth (Terra bruciata), di Fred Wilcox. È il primo studio accurato sullo spaventoso impatto delle armi chimiche sulla popolazione vietnamita, ma molto probabilmente il libro entrerà presto a far parte delle opere volutamente dimenticate che riempiono gli scaffali della “non storia”.

Nel 1967 l’opposizione ai crimini commessi nel Vietnam del sud aveva ormai raggiunto proporzioni notevoli. Quando otto anni dopo la guerra finì, l’opinione pubblica era spaccata. Da una parte c’era chi parlava di una “guerra nobile” che con un po’ più dedizione avrebbe potuto essere vinta, dall’altra chi la considerava un “errore” che si era dimostrato fin troppo costoso. In ogni caso non era veramente finita. L’esercito statunitense continuò a bombardare le campagne del nord del Laos e della Cambogia. Quelle in Laos e Cambogia (dove caddero più bombe di quante ne sganciarono gli Alleati nel Pacifico durante la seconda guerra mondiale) sono “guerre segrete”. I resoconti sono scarsi, e i fatti poco conosciuti dall’opinione pubblica e anche dalle élite istruite. Insomma, è un altro capitolo negli sconfinati annali della “non storia”.

Nel 2015 celebreremo (o forse no) il novecentesimo anniversario di un altro evento fondamentale per lo sviluppo della società contemporanea: la stesura della Magna Carta. La Magna Carta stabiliva i diritti rispettivi del sovrano e della nobiltà inglese e affermava che “nessun uomo libero” poteva essere privato dei suoi diritti “se non per giudizio legale dei suoi pari e per la legge del regno”. In seguito la stessa garanzia fu allargata a tutti. I princìpi della Magna Carta hanno attraversato l’Atlantico e sono entrati a far parte della costituzione degli Stati Uniti, secondo cui nessuna “persona” può essere “privata dei suoi diritti senza un processo equo e rapido”. Naturalmente i padri fondatori non pensavano che il termine “persona” si dovesse applicare a tutti gli individui. I nativi americani non erano persone, come non lo erano gli schiavi. Le donne lo erano a malapena.

Anche la presunzione d’innocenza è condannata a sparire nell’oscurità della “non storia”. La firma del presidente degli Stati Uniti Barack Obama sul National defense authorization act, la legge che assegna i fondi per la difesa, è l’ultimo passo verso la distruzione dei princìpi della Magna Carta. Questa legge infatti accetta la detenzione a tempo indeterminato sotto custodia militare e senza processo, usata durante le amministrazioni Bush e Obama. Oggi questo tipo di trattamento è obbligatorio per chi sia sospettato di aver aiutato le forze nemiche nell’ambito della “guerra al terrore”, e facoltativo se l’accusato è un cittadino statunitense.

Le conseguenze del provvedimento sono ben illustrate dal primo processo a un prigioniero di Guantanamo celebrato durante l’amministrazione Obama, quello a Omar Khadr, un ex bambino soldato accusato dell’orribile crimine di aver difeso il suo villaggio afgano durante un attacco delle forze statunitensi. Catturato a 15 anni, Khadr è rimasto per otto anni in cella a Bagram e Guantanamo, e infine è stato giudicato da un tribunale militare nel 2010.

A quel punto al prigioniero è stata lasciata una scelta: dichiararsi innocente e restare a Guantanamo per sempre o ammettere le sue colpe e scontare altri otto anni. Khadr ha scelto la seconda opzione. Molti altri esempi chiariscono quale sia il concetto di “terrorista” secondo il governo degli Stati Uniti. Nelson Mandela è stato cancellato dall’elenco dei terroristi solo nel 2008. Nella lista c’era anche Saddam Hussein, ma nel 1982 è stato depennato per permettere all’amministrazione Reagan di sostenere l’Iraq dopo l’invasione dell’Iran.

L’accusa di terrorismo va e viene, e di solito per ragioni politiche. Nel caso di Mandela serviva a giustificare il sostegno di Reagan a uno stato basato sull’a-partheid nella lotta contro una “delle più note organizzazioni terroristiche” del mondo, l’African national congress di Mandela. Poi l’accusa è sparita, insieme a molto altro, nelle paludi della “non storia”.

*Traduzione di Andrea Sparacino.

Internazionale, numero 936, 17 febbraio 2012*

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