04 novembre 2014 11:31

Pochi concetti delle scienze sociali sono entrati nell’immaginario popolare come il numero di Dunbar, secondo cui gli esseri umani non sono in grado di gestire una cerchia di amicizie e conoscenti superiore alle 150 persone.nÈ comprensibile che questo concetto sia risultato così affascinante. Come ha spiegato qualche tempo fa Maria Konnikova in un ritratto dell’antropologo Robin Dunbar pubblicato dal New Yorker, è a dir poco inquietante il modo in cui salta fuori inaspettatamente in contesti estremamente diversi tra loro.

È stato calcolato che la dimensione media delle moderne comunità di cacciatori-raccoglitori sia di 148,8 individui. Nel corso della storia, il numero medio dei componenti di una compagnia dell’esercito, dagli antichi romani all’Armata rossa, si è sempre aggirata intorno ai 150. E, secondo uno studio del 2003, il numero medio di parenti e amici ai quali i britannici mandano un biglietto di auguri per Natale, se si presume che ogni membro della famiglia ne riceva uno, è 153,5.

C’è poco da meravigliarsi se tanti venditori di panico vanno pronosticando che i social network distruggeranno la società. Tenendo conto del numero di Dunbar, accumulare mille amici su Facebook significa violare una legge antica quanto l’umanità stessa. Ma a giudicare dalle ricerche, i catastrofisti si sbagliano: i social network non sostituiscono gli amici in carne e ossa, né trasformano i loro utenti in zombie sepolti in un seminterrato perché sono incapaci di parlare con qualcuno faccia a faccia. Eppure, la teoria di Dunbar fa pensare che ci sia qualcosa di inquietante nel modo attuale di vivere l’amicizia.

Per secoli, e soprattutto dalla rivoluzione industriale in poi, molti sono stati sradicati dalla comunità in cui erano nati. Ma, fino a poco tempo fa, quando arrivavano in un posto nuovo perdevano inevitabilmente i contatti con quello che avevano lasciato: erano costretti a crearsi una nuova cerchia sociale. Oggi, grazie alle autostrade e agli aerei, all’email e a Skype, non è più inevitabile interrompere quei contatti. Non ci lasciamo più alle spalle la nostra vecchia vita, quindi i nostri affetti sono sparsi in vari luoghi. Paradossalmente (ed essendo un britannico trapiantato a New York parlo per esperienza), sono proprio i legami con le persone che abbiamo amato per più tempo che rischiano di farci sentire degli alieni nel posto in cui siamo.

Di conseguenza, per esempio, è molto meno probabile che le 150 persone della nostra cerchia si conoscano tra loro. Come scrive Dunbar, “le nostre reti sociali non sono più strettamente interconnesse come lo erano un tempo”. “Grazie al cielo”, potrebbe commentare chiunque sia fuggito da una cittadina di provincia. Dopotutto, nelle piccole città è proprio quell’“interconnessione” a provocare la claustrofobica sensazione che tutti si stiano immischiando nei fatti nostri.

Eppure sembra che quando i nostri amici più intimi si conoscono tra loro succeda qualcosa di positivo. Per esempio, le ricerche di Dunbar hanno dimostrato che nelle reti sociali compatte le persone sono più altruiste. Clarence e Lucretia possono anche essere ottimi amici ma, a parità di condizioni, è meno probabile che si aiutino a vicenda se non hanno nessun altro amico in comune.

Perché gli amici strettamente collegati tra loro sono migliori degli altri? Non necessariamente per motivi virtuosi. Forse sentono semplicemente di più la pressione sociale e temono che, se non si comportano bene, saranno criticati dagli amici comuni. Comunque sia, l’effetto finale è che in una rete sociale compatta un atto di amicizia è allo stesso tempo due cose: l’espressione di un legame individuale e una maglia che va ad aggiungersi al tessuto sociale complessivo.

Come minimo, questo dovrebbe essere sufficiente a farci superare la reticenza a presentare un nostro amico a un altro. È vero, prima o poi probabilmente spettegoleranno su di noi, ma anche questo rafforza il tessuto sociale.

(Traduzione di Bruna Tortorella)

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