21 aprile 2015 14:25

Una delle cose più inquietanti della nostra quotidiana vita sociale è che non abbiamo la più pallida idea dell’immagine che hanno di noi le altre persone. Leggendo il nuovo libro di Heidi Grant Halvorson, No one understands you and what to do about it, si arriva quasi a pensare che sia un miracolo se due esseri umani riescono veramente a parlarsi, per non parlare di diventare amici o sposarsi.

Dagli studi del settore emergono pochissime correlazioni tra come pensiamo che gli altri ci vedano e come ci vedono in realtà. Se le persone intorno a noi non sono vittime dell’“effetto del falso consenso” (e quindi danno per scontato che siamo come loro), spesso sono vittime dell’ “effetto di falsa unicità” (e quindi danno per scontato che non possiamo essere intelligenti, attivi o infelici come loro). O, in alternativa, siamo noi a essere vittime dell’ “illusione della trasparenza”, e diamo per scontato che le nostre parole e le nostre espressioni facciali rivelino perfettamente quello che proviamo, mentre di solito non è affatto così.

Halvorson ricorda che, dopo il suo disastroso primo dibattito presidenziale del 2012, Barack Obama era convinto di essersela cavata benissimo. Se colui che è, forse, il miglior oratore vivente non capisce che effetto esercita sul suo pubblico, quale speranza possiamo avere noi?

E c’è di peggio. Dimentichiamo regolarmente che possiamo avere accesso solo ai nostri pensieri e alle nostre emozioni, e non ci rendiamo conto di quante ipotesi siamo costretti a fare su quelli degli altri. Inoltre, siamo risparmiatori cognitivi: la vita è così complessa che istintivamente risparmiamo le nostre energie mentali e le usiamo solo quando è assolutamente necessario. Questo spiega in parte gli stereotipi di razza e di genere – sono scorciatoie che ci fanno risparmiare fatica – e tutta un’altra serie di giudizi affrettati.

Infine, c’è il pregiudizio dell’ego: per gli altri ciò che conta di noi è quello che è importante per loro, non per noi. Per questo motivo, quando devono valutare gli aspiranti a un posto di lavoro, le persone di aspetto ordinario penalizzano i candidati attraenti, mentre quelle di bell’aspetto non lo fanno, perché le prime avvertono inconsciamente una “minaccia sociale”. L’importante è sempre chi percepisce, non chi viene percepito.

Gli altri potranno mai vederci come vogliamo? Halvorson dice di sì. E consiglia di indurre le persone a evitare i giudizi viscerali e a sforzarsi di riflettere di più. Se, per esempio, ci mostriamo vulnerabili, l’empatia dovrebbe spingerle a vederci con più chiarezza. Se facciamo i complimenti a qualcuno per la sua imparzialità e capacità di giudizio, secondo alcune ricerche, la nostra profezia potrebbe avverarsi.

Ma l’osservazione più utile è forse questa: se vogliamo capire come ci vedono gli altri, fidiamoci dei numeri. I singoli incontri possono essere condizionati dai pregiudizi e dall’egocentrismo, ma se li mettiamo tutti insieme si comincia a intravedere qualche regolarità. Se nelle occasioni sociali gli altri tendono ad allontanarsi da noi, è improbabile che sia una coincidenza: evidentemente ci considerano noiosi. Se al lavoro continuano ad affidarci progetti di grande responsabilità, forse sembriamo più competenti di quanto pensiamo. Sarà anche vero che nessuno ci capisce, ma se tutti non ci capiscono esattamente nello stesso modo, la cosa dovrebbe farci riflettere.

(Traduzione di Bruna Tortorella)

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