07 luglio 2015 11:23

Tutti amano la terapia cognitiva comportamentale (tcc). Ha solide basi scientifiche ed è il sistema più pratico, veloce e relativamente economico per alleviare la sofferenza mentale, senza tutte quelle fesserie di Sigmund Freud.

Perciò è stato piuttosto sconcertante scoprire, in un saggio pubblicato dalla rivista Psychological Bulletin, che con il passare del tempo sembra risultare sempre meno efficace. Dopo aver analizzato 70 studi condotti tra il 1977 e il 2014, i ricercatori Tom Johnsen e Oddgeir Friborg sono giunti alla conclusione che per la cura della depressione la tcc funziona solo nel 50 per cento dei casi rispetto al passato.

Che cosa sta succedendo? Un’ipotesi è che, quando una terapia diventa molto popolare, aumenta la percentuale di terapeuti inesperti o incompetenti. Ma l’articolo suggerisce una spiegazione ancora più interessante: quella dell’effetto placebo. La pubblicità iniziale aveva fatto credere che la tcc fosse una cura miracolosa, e quindi per un certo periodo di tempo aveva funzionato come se lo fosse davvero. Oggi, invece, è molto più probabile che si conosca qualcuno che l’ha provata e non è miracolosamente guarito dalla sua infelicità. Le nostre aspettative si sono ridimensionate, e di conseguenza anche l’efficacia del metodo è diminuita. Johnsen e Friborg temono che il loro articolo peggiori le cose riducendo ulteriormente le aspettative.

Se siamo veramente convinti che un intervento psicoterapeutico funzioni, significa che sta funzionando

Ma la loro teoria mette in evidenza qualcosa di ancora più strano: trattandosi di un tipo di psicoterapia (quindi basata sulla parola), che senso ha evocare l’effetto placebo? Nel caso dei farmaci è comprensibile: se prendo una pillola di zucchero convinto che sia un antidepressivo e mi sento meno depresso, ci sono buone probabilità che sia un frutto dell’effetto placebo. Ma se penso che la tcc, o qualsiasi altro tipo di psicoterapia, possa funzionare, e funziona veramente, come si fa a dire che la sua efficacia dipende dalla mia convinzione e non dalla terapia stessa?

La convinzione fa parte integrante del processo, non è una spiegazione alternativa. La linea di demarcazione tra quello che pensiamo stia succedendo e quello che succede realmente è piuttosto confusa. Se siamo veramente convinti che un intervento psicoterapeutico funzioni, significa che sta funzionando.

Forse ogni periodo storico ha bisogno di credere in una cura miracolosa: negli anni trenta era la psicoanalisi di Freud, negli anni novanta la terapia cognitiva comportamentale, oggi è la meditazione consapevole, finché non si scoprirà che anche quella ha i suoi punti deboli come tutte le altre.

Oppure può darsi che siamo noi che stiamo cambiando. Nel 1958, lo psicoanalista americano Allen Wheelis pubblicò un libro in cui sosteneva che l’analisi freudiana aveva smesso di funzionare perché il carattere americano era cambiato. Ai tempi di Freud, diceva Wheelis, le persone non capivano perché erano tristi, ma quando la psicoanalisi glielo spiegava riuscivano a dare una svolta alla loro vita. I suoi contemporanei capivano meglio i motivi del proprio disagio, ma non avevano abbastanza grinta per cambiare le cose. “Senza la caparbia determinazione dei vittoriani”, per citare Volere è potere di Roy Maumeister e John Tierney, “la gente non ha la forza di mettere in atto quello che ha capito e di cambiare la propria vita”.

Le vecchie tecniche non erano completamente sbagliate, ma a un certo punto non hanno funzionato più. Se il segreto della felicità è difficile da scoprire è perché la risposta continua a cambiare.

(Traduzione di Bruna Tortorella)

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