16 febbraio 2016 12:33

Di recente, la saggista Barbara Ehrenreich ha criticato un’idea che va tanto di moda, ossia che la gratitudine sia un sentimento utile a raggiungere la felicità. La reazione dei sostenitori della riconoscenza è stata piuttosto interessante perché hanno cercato di demolire la sua tesi dando quasi l’impressione di esserle grati per averla proposta.

Troppo spesso, sostiene Ehrenreich, la gratitudine si mette al servizio di obiettivi discutibili. Un dipendente della catena Walmart dovrebbe essere davvero riconoscente per aver ottenuto l’aumento di un dollaro sul suo stipendio, quando la famiglia Walton, proprietaria dell’azienda, è la più ricca degli Stati Uniti? E non è narcisistico da parte dei ricchi “sentirsi riconoscenti” invece di fare di tutto per migliorare le condizioni di vita dei più poveri sui quali fanno affidamento per tanti lavori? La gratitudine ci fa semplicemente sentire meno in colpa per l’ingiustizia, conclude Ehrenreich, mentre ci vorrebbe “un impulso molto più deciso di solidarietà, che potrebbe costringerci a fare qualcosa di più che meditare sul tappetino da yoga”.

Pensiero e azione concreta

Ho sempre molto apprezzato i vantaggi della riconoscenza; per quanto possa sembrare piena di sentimentalismi, la teoria che spiega l’utilità di tenere un diario della gratitudine appare abbastanza solida.

Ma Ehrenreich dice una cosa giusta, che richiama la critica rivolta spesso ai seminari di meditazione buddista sulla gentilezza per sviluppare la compassione (a meno che crediamo in qualche strano fenomeno fisico, i nostri pensieri gentili non migliorano la vita di nessuno e potrebbero finire per sostituire l’azione concreta).

Il problema di questo tipo di critiche è che possono essere applicate quasi a tutto: qualsiasi attività benefica può essere considerata come una forma di narcisismo, o essere sfruttata dal capitalismo. Per esempio, i vari consulenti e oratori di Ted talk adesso predicano i vantaggi dell’attenzione per gli altri; o invitano a essere compassionevoli; o a ottenere risultati migliori dai propri dipendenti lasciandoli dormire di più.

Un esercizio consiste nel cercare un motivo per essere riconoscenti di tutto quello che succede, anche se è spaventoso

Comunque, non sto dicendo che sia sbagliato essere attenti nei confronti degli altri, provare compassione o riconoscenza; il problema è che non possiamo dividere questi comportamenti tra giusti e sbagliati, per adottare i primi, evitare i secondi, e quindi essere automaticamente felici. Dobbiamo decidere volta per volta.

Tenere un diario della gratitudine ci rende più prosociali, o fa di noi dei bastardi autocompiaciuti che rafforzano lo status quo? Solo noi possiamo saperlo (e la risposta può cambiare di volta in volta). La meditazione fa di noi esseri umani leggermente migliori, o la stiamo usando per evadere dalla realtà? E così via. Questo vale per tutte le presunte tecniche di automiglioramento.

Un esercizio rivelatore, suggerito dalla maestra buddista Nikki Mirghafori, consiste nel cercare un motivo per essere riconoscenti di tutto quello che succede, anche se è spaventoso. Quello che intende non è che dovremmo essere riconoscenti per tutte le cose terribili che succedono, ma che sperimentare questa possibilità può essere utile. Ci aiuta a capire con quanta facilità tendiamo a dare per scontato che gli eventi “siano sempre positivi o negativi, e quanto ciò sia determinato da come li accogliamo quando succedono”, spiega il blogger David Cain.

Non vi è mai capitato che un evento negativo (una malattia o la perdita di un posto di lavoro) alla fine si sia dimostrato una salvezza? Questo tipo di gratitudine sperimentale ci permette di dare meno cose per scontate. E direi che questo la rende fondamentale. Ma chiedersi se la gratitudine sia una cosa buona o cattiva mi sembra una questione di lana caprina.

(Traduzione di Bruna Tortorella)

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