22 marzo 2016 16:29

Gli psicologi sono forse gli unici ricercatori che, per definizione, non possono vedere l’oggetto dei loro studi. Se la vostra passione è l’anatomia, potete fare a pezzi un corpo; se volete capire i rituali religiosi polinesiani, potete prendere un aereo, ma non potrete mai entrare nell’esperienza mentale di un’altra persona.

Non è che nessuno si sforzi di farlo: in un suo recente studio (che ho scovato tramite il blog Research Digest), la ricercatrice dell’università di New York Ruvanee Vilhauer ha indagato sulle “voci interiori” che molte persone sostengono di sentire quando leggono, e ha scoperto che circa l’80 per cento di noi è convinto di sentirle. Per molti, è la loro stessa voce; per altri sono le voci dei personaggi del libro; alcuni dicono di sentire gli sms con la voce di chi glieli ha mandati. Forse un giorno sarà possibile impiantare nel cervello voci personalizzate, come è possibile avere quella di Snoop Dogg sul nostro navigatore satellitare. Ma spero proprio di no.

Le parole mancanti

A parte le esperienze di lettura, queste voci interiori sono alla base di molti libri sull’autoaiuto e la spiritualità. Il motivo principale per cui siamo infelici, sostiene la teoria, è che sentiamo continuamente dentro di noi una voce che ci dice che non valiamo nulla, o che gli altri dovrebbero trattarci in un modo diverso.

Torniamo a essere felici solo quando riusciamo a modificare quello che dice quella voce, oppure impariamo a metterla a tacere o a ignorarla, di solito con l’aiuto della terapia cognitiva o della meditazione (alcuni esperti ipotizzano che l’altro tipo di voci interiori, quelle di cui parlano gli schizofrenici, sono esattamente la stessa cosa ma vengono erroneamente interpretate come provenienti dall’esterno). Comunque, vi posso capire se pensate che questo sollevi più domande delle risposte che ci dà. Per esempio: che cosa intendiamo per “voce interiore”? Non solo le esperienze possono essere diverse da persona a persona, ma forse non abbiamo neanche le parole per spiegarlo.

Non saprete mai come le persone che vi sono più vicine percepiscono il mondo

Considerate l’unico esempio che sono in grado di portare, cioè me. Ho spesso sospettato che il mio mondo interiore fosse meno verbale di quello della maggior parte delle persone. “In caso non lo aveste notato, nella vostra testa è in corso un dialogo mentale che non si interrompe mai”, scrive Michael A. Singer nel suo bestseller Songs of the untethered soul. È un ritornello che mi suona familiare, ma non mi sembra valga per me. Sarà perché i miei pensieri sono più visivi? È possibile, ma parlando con gli altri mi viene il sospetto che anche il mio “occhio della mente” non funzioni molto bene: le immagini che genera sono buie e prive di colore, mentre le loro sono vivide e luminose. Nessuna di queste metafore sensoriali – parlare, vedere – corrisponde a come mi sembra di pensare. Forse sono strano io. O forse sono normale, ma non ho le parole per spiegarlo.

Se passate un po’ di tempo a riflettere su queste cose, rimarrete colpiti dalla sconvolgente verità che il divario tra la vostra mente e quella di tutti gli altri è incolmabile. Non saprete mai come le persone che vi sono più vicine percepiscono il mondo. Prendiamo, per esempio, l’intensità emotiva: e se la loro idea di essere “incredibilmente felici” corrispondesse alla vostra idea di essere “abbastanza contenti”? O viceversa? Chi può dirlo? Interagire con gli altri è come urlare dalle cime delle montagne, attraverso la pioggia battente, in lingue diverse, con un passamontagna sulla testa. Provate a raffigurarvi la scena con il vostro occhio della mente. Se mai ce l’avete.

(Traduzione di Bruna Tortorella)

Questo articolo è uscito sul quotidiano britannico The Guardian.

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