29 giugno 2016 16:41

Più o meno al cinquecentesimo articolo che elogia Hamilton, il musical di Broadway che arriverà in Europa il prossimo anno, ho pensato che probabilmente non lo vedrò mai. E non solo perché è praticamente impossibile trovare i biglietti, ma perché ne sono rimaste estasiate talmente tante persone – anche persone di cui mi fido – che adesso considero con fastidio questa prospettiva.

Due anni fa è successa la stessa cosa con il film di Richard Linklater Boyhood, che ancora non ho visto; poi con la quadrilogia di Elena Ferrante, che ancora non ho letto. Da una piccola inchiesta tra i miei amici ho scoperto che non sono il solo ad avere questa reazione – chiamiamola “insofferenza culturale” – di fronte a libri, film, opere teatrali, viaggi e ristoranti. Il mio primo pensiero quando leggo che qualcosa è “assolutamente da leggere o da vedere” è sempre più spesso: “Ah, sì? Dimostramelo”.

Sarebbe facile liquidare questo tipo di atteggiamento come puro e semplice spirito di contraddizione. Dopotutto, viviamo in un’epoca di ostentazione del dissenso da tutto ciò che è convenzionale, come quella dei giornalisti che vanno a caccia di clic spiegando quali sono “Le cose giuste che dice Trump”, o delle persone che abbracciano certe mode perché altri le disdegnano.

La giusta proporzione
Inoltre lo spirito di contraddizione ha i suoi meriti: “Ogni volta che capite di stare dalla parte della maggioranza”, diceva Mark Twain, “vi conviene fermarvi e riflettere”. Ma diversamente dalla sindrome del bastian contrario, l’insofferenza culturale non consiste solo nell’apparire diversi dagli altri: anche se fossi solo in una stanza, non avrei nessuna voglia di leggere un libro di Ferrante se ne avessi a disposizione altri. E non è perché penso che queste opere non siano buone, anzi probabilmente sono tutte sensazionali. Quando si tratta, per esempio, delle gare televisive di cucina, non mi lascio condizionare dalla massa perché sono sicuro che non mi perdo molto. Nel caso di Hamilton o Boyhood, invece, sono sicuro che con la mia perversione mi privo di un vero piacere.

La mia irritazione davanti agli elogi di certi libri è un modo di riprendere il controllo

E allora perché reagisco così? Una spiegazione potrebbe essere quella che gli psicologi chiamano “teoria della distintività ottimale”, che definisce la nostra tendenza a destreggiarci per sentirci nella giusta proporzione uguali e diversi da quelli che ci circondano. Nessuno vuole essere completamente escluso dal gruppo ed esiliato ai margini della società, ma nessuno vuole neanche essere del tutto inghiottito. Durante l’infanzia e l’adolescenza questo assume la forma del caparbio rifiuto di fare quello che ci dicono, per dimostrare che possiamo disobbedire ai nostri genitori. E forse non ci passa mai completamente.

Ma io ho un altro sospetto a proposito dell’insofferenza culturale, e penso che sia una forma di difesa dalla “paura di perdersi qualcosa”. Oggi, grazie soprattutto alla tecnologia, siamo più che mai consapevoli di tutte le cose interessanti che la gente fa altrove. La conseguenza è un’ansia continua che ci rovina il piacere di quello che stiamo facendo: e se potessimo star facendo qualcosa di meglio? La mia irritazione davanti agli elogi che si riversano su certi libri, film oppure opere teatrali è un modo di riprendere il controllo. Invece di preoccuparmi se devo veramente leggere Ferrante, assumo un atteggiamento di sfida e decido che non lo farò. È un problema di meno, e mi lascia libero di concentrarmi sul tentativo di convincere gli altri a vedere Better call Saul. No, sul serio, se non lo avete ancora fatto, dovete assolutamente vederlo.

(Traduzione di Bruna Tortorella)

Questo articolo è stato pubblicato dal quotidiano britannico The Guardian.

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