25 ottobre 2016 10:59

Le persone che predicano che nella vita bisogna “divertirsi di più”, di solito sono quelle che vorreste (d’accordo, vorrei) prendere a pugni. Sono i boss alla David Brent della serie Bbc The office che impongono a tutti di fare strazianti esercizi di rottura del ghiaccio durante le ferie; sono i controllori dei treni e gli assistenti di volo convinti che i passeggeri si divertano un mondo quando loro fanno le vocine dei cartoni animati.

Una tendenza particolarmente fastidiosa della tecnologia, la gamification (o ludicizzazione), è quella che si sforza di trasformare attività banali in giochi a punti e premi, così che andare in piscina diventa una “conquista del fitness”, e i lavori di casa una “guerra allo sporco” con il marito o con la moglie.

Secondo la mia esperienza, questi tentativi di aggiungere una finta patina di divertimento non funzionano, se non altro perché ci ricordano sempre che quello che stiamo facendo è noioso. Se non lo fosse, perché mai dovrebbero cercare di farcelo sembrare divertente?

Saltare le fessure tra le piastrelle
Il critico e ideatore di giochi americano Ian Bogost non discute l’assurdità di questa allegria forzata, ma nel suo nuovo libro Play anything sostiene che il vero problema è che non capiamo la reale natura del divertimento.

Immaginiamo che l’unico modo per alleviare il tedio della vita sia sfuggirgli, o fingere che non esista. Ma per divertirsi veramente bisogna “prendere il mondo per quello che è”, immergersi nella situazione in cui ci si trova e accettarla, con tutti i suoi limiti, non tirarsi indietro.

I limiti esterni non sono un’antitesi ma una precondizione, perché un gioco senza regole non è un gioco

Bogost ricorda che una volta, mentre trascinava sua figlia di quattro anni attraverso un centro commerciale più velocemente di quanto lei potesse stargli dietro, si è accorto che la sua resistenza era dovuta al fatto che rallentava per non appoggiare mai i piedi sulle fessure tra le piastrelle: un gioco che i bambini fanno spesso, reso ancora più stimolante dalla propulsione in avanti del padre. Non aveva scelto quella situazione, ma ne stava sfruttando in modo creativo i limiti, l’aveva trasformata in un divertimento.

Tutto questo dimostra che i limiti esterni non sono un’antitesi ma piuttosto una precondizione del divertimento: un gioco senza regole non è un gioco. Una curiosa conseguenza di questo è che il divertimento non è sempre, forse quasi mai, piacevole. Provate a chiederlo a chiunque giochi seriamente a scacchi, a golf o perfino ai videogame, e vi confesserà che è una vera e propria lotta, altrimenti perché prendersi la briga di giocare?

Da questo punto di vista, il piacere non consiste nel divertirsi in quel momento, ma nel ricordare con soddisfazione di aver trovato nuove possibilità creative nonostante i vincoli di una situazione.

Tuttavia, Play anything, non è solo un manifesto a favore della trasformazione dei compiti noiosi in giochi (anche se mi ha fatto sentire meno scemo per il modo in cui riordino la cucina dopo cena, dividendola mentalmente in “zone”, e ripulendole una dopo l’altra, come un’unità militare che le mette in sicurezza. Scommetto che Alan Partridge fa la stessa cosa). È il manifesto di un atteggiamento diverso nei confronti del mondo.

Cerchiamo sempre di affrontare le cose della vita quotidiana che non ci piacciono cambiandole o cambiando noi stessi. E se invece le vedessimo con occhi nuovi, come una serie di vincoli – le regole di un gioco – e ci chiedessimo quali “mosse” possiamo fare per aggirarli? Forse non finiranno per piacerci. Ma probabilmente ci divertiremmo di più.

(Traduzione di Bruna Tortorella)

Questo articolo è uscito sul quotidiano britannico The Guardian.

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