17 gennaio 2017 13:31

Come sapete, oggi nel mondo anglofono è quasi obbligatorio essere ossessionati da qualche concetto che appartiene allo stile di vita scandinavo. Nel 2016 è stata la volta di hygge, una parola danese che per qualche motivo è sia intraducibile sia indicativa di una “confortevole intimità”, e che l’anno scorso è stato il tema centrale di circa due miliardi di libri da salotto (in proposito, vedi lo splendido articolo di Charlotte Higgins pubblicato dal Guardian). Nel 2017 sembra che il concetto scandinavo alla moda sarà lagom, una parola svedese che significa “la giusta quantità, né poco né troppo”. Questo periodo storico, a qualche giorno dall’insediamento di un presidente degli Stati Uniti instabile arrivato al potere sull’onda della rabbia e delle teorie del complotto, può sembrare il meno adatto ad accettare lo spirito della moderazione. Ma forse è proprio per questo che ne abbiamo bisogno.

Il problema della moderazione, sostiene Peter Wehner in un suo recente saggio pubblicato dal New York Times, è che è considerata essenzialmente come una mancanza di coraggio, un tiepido compromesso tra due estremi più decisi, “una filosofia per le anime tenere”, come Jean-Paul Sartre definiva il liberalismo. Io non voglio essere moderatamente contrario ai politici disonesti, misogini e praticamente fascisti; quando sono gli estremisti a governare il mondo, dovremmo fare di tutto per sconfiggerli. Ma, d’altra parte, dentro di me so benissimo che una vittoria dei Nostri sui Loro alle prossime elezioni o al prossimo referendum alla lunga non risolverebbe molto. Umiliare gli avversari garantisce solo che torneranno all’attacco più furiosi che mai, fino a quando non avranno riconquistato abbastanza potere da umiliare noi.

Una distinzione difficile da fare
C’è una via d’uscita da questo dilemma? Secondo Wehner sì: dovremmo vedere la moderazione come “una disposizione d’animo piuttosto che un’ideologia”, non come un insieme di opinioni, ma come un modo di rapportarci con le nostre opinioni e con quelli che non sono d’accordo con noi. I moderati “non vedono il mondo in termini manichei che lo dividono in forze del bene (o della luce) e del male (o delle tenebre)”, scrive il politologo Aurelian Craiutu nel suo nuovo libro Faces of moderation, citato da Wehner. Essere moderati non vuol dire rinunciare a vedere la differenza tra le nostre opinioni e quelle degli altri (per esempio, arrivare a riconoscere che il razzismo in fondo ha le sue ragioni), significa ammettere che nessuno è irraggiungibile e impossibile da redimere. È una distinzione difficile da fare, io stesso so di non essere sempre capace di farla (soprattutto su Twitter). Ma decisamente non è né patetica né indice di debolezza, anzi è molto più coraggiosa dell’alternativa, che richiede meno sforzo, di annientare i propri avversari.

Sinceramente, a sentire gli svedesi con cui ho parlato, non sono sicuro che il concetto di lagom includa questa robusta compassione per i nostri nemici, indica piuttosto la modestia degli svedesi e la loro tendenza a non prendere posizione. D’altra parte, il vero motivo per cui prendiamo in prestito questi termini scandinavi non è proprio perché possono voler dire tutto quello che vogliamo? Perciò, quando nel corso dell’anno i libri sul lagom tappezzeranno tutte le librerie, potremmo almeno infondergli un pizzico di senso di sfida, un’alternativa coraggiosa al facile estremismo della nostra epoca.

(Traduzione di Bruna Tortorella)

Questo articolo è uscito sul quotidiano britannico The Guardian.

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