16 maggio 2017 10:20

Dovremmo parlare più apertamente della malattia mentale, o sarebbe meglio tacere? Dipende dalla sponda dell’Atlantico in cui viviamo. Nel Regno Unito, il futuro capo di stato (il principe William) ha appoggiato un’ammirevole campagna, Heads together, a favore di una maggiore apertura su questo tema, ma negli Stati Uniti, dove l’attuale capo di stato sembra profondamente disturbato, la posizione ufficiale è: meglio tenere la bocca chiusa.

L’American psychiatric association (Apa) si attiene rigorosamente alla regola di Goldwater, che vieta ai suoi iscritti di esprimere opinioni, e meno che mai formulare diagnosi, sulle persone che non sono state valutate personalmente (la regola è stata concepita dopo che, nel 1964, da un sondaggio condotto tra gli psichiatri era emerso che il candidato alle presidenziali Barry Goldwater era inadatto a ricoprire quella carica). Inutile dire che la regola non ha mai impedito ai mezzi d’informazione di fare ipotesi sulla sanità mentale di alcune persone famose, ma impedisce di farlo a chi potrebbe contribuire in modo sobrio e credibile al dibattito.

L’argomento migliore a favore dell’iniziativa Heads together della famiglia reale è che potrebbe contrastare lo stigma che accompagna la malattia mentale, mentre l’argomento migliore a favore dell’Apa per non parlare dei problemi di Trump è evitare di stigmatizzare altre persone malate di mente associandole a lui.

Tuttavia c’è qualcosa che non va: se anche fossimo pronti ad ammettere che la malattia mentale può colpire chiunque, ci è quasi impossibile riconoscere che può colpire anche alcune persone particolarmente sgradevoli. E di sicuro non vogliamo ammettere che esiste un rapporto tra la loro malattia e le cose sbagliate che fanno.

Tuttavia, se Donald Trump soffrisse davvero di narcisismo e sociopatia, questi due aspetti non sarebbero irrilevanti rispetto al pericolo che costituisce. Non perché essere narcisisti, o perfino sociopatici, renda le persone automaticamente cattive, ma perché nel suo caso questi disturbi interagiscono con la sua personalità in generale, e con la posizione che occupa, in misura tale da renderlo ancora più pericoloso. Nessuno, neanche Trump, dovrebbe essere biasimato se è malato di mente. Ma non dovremmo neanche far finta che la malattia mentale colpisca solo le brave persone.

L’obbligo di avviso
La regola di Goldwater non è l’unico modo in cui il nobile scopo di cancellare un marchio infamante può ottenere l’effetto contrario. Come ha osservato qualcuno, dicendo “tutti ne soffriamo” rischiamo di insinuare che tutti ne soffriamo nello stesso modo e di minimizzare i problemi di chi ne soffre in forma più grave e, soprattutto, di rinforzare il concetto che la malattia mentale sia biologicamente inevitabile. “Succede a tutti” lascia intendere che sarà sempre così. Ma questo solleva governi e comunità da qualsiasi responsabilità: se l’economia moderna induce inevitabilmente l’ansia, tanto per fare un altro esempio, forse bisogna cambiare la società. Dobbiamo parlarne. E non solo parlarne.

Il mese scorso, un gruppetto di coraggiosi che dissentono dalla regola di Goldwater ha organizzato un convegno aperto all’università di Yale. “Noi abbiamo un obbligo di avviso”, ha spiegato la psichiatra Bandy Lee, “riguardo a un leader che è pericoloso per la salute e la sicurezza dei nostri pazienti”. Ha ragione: come ho detto c’è il rischio che parlando nel modo sbagliato dello stato mentale di Trump si danneggino altre persone. Ma c’è anche il rischio che Trump, con le sue manie di grandezza e la sua furiosa intolleranza a qualsiasi critica, scateni una guerra atomica. Ha già combinato parecchi guai di minore entità. E la sanità mentale del pianeta ci impone di non fare troppi complimenti.

(Traduzione di Bruna Tortorella)

Questo articolo è uscito sul quotidiano britannico The Guardian.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it