03 marzo 2015 16:01

1. Nneka, Book of Job
Potrebbe essere una discendente credibile di Lauryn Hill questa cantante hip-hop-reggae-dancehall-ska nata e cresciuta in Nigeria, trasferita in Germania a studiare antropologia e rimasta poi impigliata nel suo talento di vocalist, ad aprire tournée per Lenny Kravitz e far ballare di sé nel circuito dell’eurodance. Questo suo terzo album, My fairy tales, è roba buona, di andamento felino, un lungo e non troppo lento calypso molleggiato con astuzia da meccanici germanici. Album potabile anche solo come background, ma con l’anima.

2. Father John Misty, Bored in the Usa
Già batterista dei Fleet Foxes, Josh Tillmann canta e suona a squarciatutto, è un grande narciso autobiasimante (se lo dice lui), e nel suo nuovo I love you, honeybear denuda la sua grande barbuta anima bianca (nella scia di mostri sacri del cantautorato anni settanta, da John Lennon ai vari Randy Newman e Harry Nilsson). Con la produzione di Jonathan Wilson, questa voglia di illuminare la lunga marcia da cazzone ad adulto capace di amore trova riflettori teatrali e mélo: un grande confessionale con gli applausi delle sitcom sullo sfondo.

3. Natas Loves You, Got to belong
Questo pop aereo vale come ballon d’essai per l’album The 8th continent, e per una scommessa: i nuovi Phoenix arrivano dal Lussemburgo? Fanno europop non privo di nerbo, ma dal cuore tenero, rassicurante ma non palloso. Tutto è buona media, pure la geografia: la band si è formata nel paese di Jean-Claude Juncker, ma i musicisti vengono da Stati Uniti, Finlandia, Francia e Spagna. Fuggiti insieme, hanno aggiunto un tocco di sofisticazione parigina e uno di sgamata produzione newyorchese in più. Gente che sa come farsi notare.

Questo articolo è stato pubblicato il 27 febbraio 2015 a pagina 86 di Internazionale, con il titolo “Juncker fever”. Compra questo numero | Abbonati

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