13 dicembre 2016 19:12

1. Sex Pizzul, Stadium
Non può non strappare il sorriso il nome veteroadolescenziale di questa formazione fiorentina, che fa un’anarcoide miscela di punk funk e patchanka nell’energizzante album Pedate. Che contiene anche la sigla di chiusura perfetta per la stagione dei “Basta un sì”: l’inno di Domenica sprint trasformato in caotico sabba, con quel ritmo da curva sud che il magnificentissimo Oscar Prudente scippò agli Specials di Concrete jungle, qui brutalizzato con amore, e strapazzato da un Moog che suona come se sapesse di dover essere rottamato.

2. Ivano Fossati, La canzone popolare
Un’altra sigla storica, un pezzo del 1992 (album: Lind-bergh) e poi espropriato dall’Ulivo prodiano, con il consenso dell’autore, per un’altra ottimistica stagione delle sinistre italiane poi svaporata nell’abituale tafazzismo. Da un autore smisurato e un poco mugugnone come Fossati (di cui è uscita la superantologia Contemporaneo, con questo pezzo anche nella versione “breve” da quattro cd) ci si poteva aspettare qualcosa che aprisse il cuore così: pochi come lui sanno catturare quel sentimento da raggio di sole che si fa breccia tra le nuvole.

3. Deap Vally, Gonnawanna
In cerca di sigle per ottimismi prossimi venturi, in California ci s’imbatte nell’inno di un duo di rocker alternative: Julie, batterista mamma dai capelli rosa, e Lind-sey, chitarrista ruggente. Si sono incontrate nel 2011 a un corso di uncinetto e da allora suonano, picchiano e graffiano insieme. Il loro album ha un titolo-manifesto, Femejism, che equivale più o meno a un’eiaculazione di potenza femminile. Prodotto dalle due con una mano dal chitarrista degli Yeah Yeah Yeahs sprizza energia anarcoide e un mood d’incazzatura più che sostenibile.

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