27 ottobre 2016 18:35

Steve Ditko ideò il Dottor Strange nei primi anni sessanta, quando i Fantastici 4 si erano già affermati e l’Uomo Ragno cominciava a imbrattare Manhattan con le sue tele. Fu concepito come un tipo diverso di supereroe i cui poteri, più che a mutazioni dovute a raggi gamma o a morsi radioattivi, attingevano a un misticismo ancestrale, tibetano, decisamente più psichedelico. Anche se in Italia era uno di quei supereroi a non avere un albo dedicato, non significa che siamo al fondo del barile dell’universo Marvel. Anche perché, arrendetevi, quel fondo non esiste.

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E infatti nel film Disney/Marvel, Doctor Strange, a vestire i panni dell’ex neurochirurgo trasformatosi nel mago più potente dell’universo (quale universo?) arriva un attore di successo come Benedict Cumberbatch, alla guida di un cast internazionale in cui ci sono anche Mads Mikkelsen, Rachel McAdams, Chiwetel Ejiofor e Tilda Swinton.

La presenza di Swinton ha scatenato una polemica sul whitewashing del grande maestro immortale tibetano che insegna al dottor Strange le arti mistiche. Stiamo parlando di una figura che nel fumetto originale era abbastanza stereotipata, cioè un vecchietto residente sul tetto del mondo con gli occhi a mandorla e la barba caprina. Perché quindi affidarne il ruolo a un’attrice londinese che di orientale non ha nulla?

La produzione si è affrettata a trasformare il maestro immortale tibetano in una maestra immortale celtica che stufa delle Highlands si è trasferita sull’Himalaya. Ma il pasticcio ormai era fatto. Sarebbe bello stare a parlare della grande esperienza hollywodiana in fatto di whitewashing, ma questa settimana escono troppi film.

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Nella periferia di Liegi, lontana anni luce dal sancta sanctorum del dottor Strange, incontriamo un altro dottore. Anzi una dottoressa. In La ragazza senza nome, ultimo film dei fratelli Jean-Pierre e Luc Dardenne, in concorso al festival di Cannes, Adèle Haenel interpreta la dottoressa Jenny, giovane medico che lavora in un ambulatorio pubblico. Una sera, fuori orario, qualcuno suona il campanello dell’ambulatorio. Jenny è ancora lì, ma decide di non aprire. Il giorno dopo si scoprirà che la persona che ha suonato alla porta, una ragazza, è morta violentemente. Jenny si sente responsabile e scoprire l’identità della sconosciuta diventa un’ossessione.

Va chiarito che il nuovo film dei fratelli Dardenne non è un thriller. Le “indagini” di Jenny sulla sconosciuta sono uno strumento per una visita alla periferia di una grande città, la cui salute, ovviamente, è tutt’altro che ottima. E questo forse vale per tutte le periferie delle grandi città d’Europa. Ma non è una pellicola dura come quelle a cui ci hanno abituato i due fratelli di Lieg. La cosa che colpisce di più è senz’altro la giovane protagonista, Adèle Haenel. Il suo volto rimane impresso e non solo perché compare nel novanta per cento delle inquadrature del film.

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Dall’ultimo festival di Cannes (sezione Un certain regard) arriva anche La parola di dio, del russo Kirill Serebrennikov. Venja (Pyotr Skvortsov), un liceale che vive con la madre divorziata, comincia a comportarsi in modo molto strano sia a casa sia a scuola. Cita in continuazione la Bibbia che sembra essere diventata il suo punto di riferimento per tutto e inscena provocazioni via via più pesanti, sempre citando le sacre scritture. La madre e la maggior parte degli insegnanti sono convinti che per Venja sia un modo come un altro per ribellarsi.

Le sue provocazioni diventano inquietanti, mentre si affinano le sue capacità di citare la Bibbia per mettere sotto scacco chiunque lo affronti. Nel film ci sono momenti che sembrano satirici. Divertente la scena in cui Venja indossa un costume da scimmia per boicottare l’insegnante di scienze (chissà se è una citazione di Morgan matto da legare?). Inizialmente, empatizzando con Venja, ci si può interrogare su quale sia la natura dei suoi comportamenti (ribellione, malattia mentale, repressione sessuale). Poi però, man mano che il tono del film si fa più cupo, La parola di dio si rivela come uno studio sul potere subdolo e ricattatorio che può avere l’estremismo religioso.

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L’inizio di Enclave, del regista serbo Goran Radovanović, dà subito un’idea di cosa può voler dire vivere confinati. Siamo nel 2004, in Kosovo. Il piccolo Nenad vive in un’enclave. È rimasto l’unico bambino a frequentare la scuola serba e, al posto dello scuolabus, a portarlo avanti e indietro da casa è un mezzo blindato dell’Onu. L’aula scolastica sembra comunque un luogo dove Nenad può respirare, rispetto all’interno del blindato o della cupa casa di campagna dove vive con il padre e il nonno morente. Quando la scuola chiude, il mondo di Nenad diventa ancora più ristretto. Sarà inevitabile per lui venire a contatto con altri bambini che fanno parte però della comunità albanese. La trama e i meccanismi del film sono molto complicati. Si può però dire che non si tratta di uno di quei film sulla “guerra vista dagli occhi innocenti di un bambino”. È piuttosto un film sulle assurdità del mondo e sulle conseguenze che possono avere. Contiene anche un messaggio di pace, speranza e fratellanza, ma per arrivarci bisogna faticare un po’.

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Escono anche il thriller The accountant, con Ben Affleck nei panni di un genio matematico in prestito alla criminalità organizzata, e In guerra per amore, il secondo film di Pif che ce ne parla nell’Anatomia di una scena.

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