12 ottobre 2016 12:12

Mentre la campagna elettorale statunitense sembra ormai occuparsi sempre più delle caratteristiche personali dei candidati, il bilancio di Barack Obama, a poche settimane dalla fine del suo mandato, permette di prepararsi delle buone domande da fare a chi prenderà il suo posto – molto probabilmente Hillary Clinton.

Nell’ottima serie televisiva di Norma Percy, Inside Obama’s White House, trasmessa prima dalla Bbc e poi dalla rete francotedesca Arte, si è parlato molto di uno dei momenti chiave del duplice mandato del presidente statunitense: quello in cui, nell’agosto 2013, decise di non bombardare la Siria nonostante le sue dichiarazioni sulla “linea rossa” che non doveva essere oltrepassata, e cioè l’uso delle armi chimiche da parte del regime di Bashar al Assad.

Un’operazione militare di tre paesi – Stati Uniti, Francia e Regno Unito – era prevista per “punire” l’esercito di Assad, ma si è scontrata prima con il voto negativo del parlamento britannico, poi con la decisione di Obama di annullare tutto per scegliere la via diplomatica con la Russia.

Nel documentario il presidente statunitense fa questa dichiarazione sorprendente: “Retrospettivamente questa è stata è una delle decisioni di cui sono più orgoglioso”.
Un’affermazione sorprendente perché a Parigi il presidente François Hollande non ha mai digerito l’annullamento all’ultimo minuto di un’operazione militare sul punto di essere avviata, con i piani di volo degli aerei francesi e gli obiettivi già approvati. Hollande vi ha più volte fatto riferimento in pubblico con un po’ di rammarico, mentre in privato i toni sono stati molto meno amichevoli.

Alla fine dell’epoca Obama il mondo non è più sicuro di quanto lo fosse alla fine dell’epoca di George W. Bush

Un’affermazione sorprendente anche perché la situazione in Siria ha continuato ad aggravarsi dopo la crisi dell’estate del 2013, oltrepassando ampiamente le frontiere siriane con le azioni terroristiche del gruppo Stato islamico (Is) e con l’arrivo di profughi siriani in Europa e nei paesi limitrofi. Inoltre la passività statunitense ha lasciato campo libero all’azione determinata della Russia e dell’Iran in favore del regime di Damasco.

Ma qui siamo di fronte a una delle contraddizioni principali o quanto meno dei malintesi, per utilizzare un termine più sfumato, dell’epoca Obama: questo presidente razionale è stato eletto nel 2008 per curare le ferite degli Stati Uniti, non solo quelle della segregazione razziale, ma anche quelle lasciate dai due mandati di George W. Bush, con la sua eredità di due guerre (Afghanistan e Iraq). Presidente del soft power, cioè di un’influenza basata su mezzi diversi dalla forza, Obama si è trovato di fronte a interessi di hard power, cioè quelli della guerra e della pace, e li ha affrontati con grande riluttanza.

Un mondo completamente cambiato
A quanto pare Obama non è riuscito a disimpegnare completamente gli Stati Uniti dalle due guerre lasciate in eredità da Bush, visto che un piccolo contingente è ancora indispensabile per garantire la sopravvivenza del debole regime afgano, e che la lotta contro l’Is continua a mobilitare l’esercito statunitense in Iraq e in Siria. Inoltre è stato il presidente che ha causato più morti che in passato permettendo i raid teleguidati con i droni, un modo meno visibile ma altrettanto sanguinoso di fare la guerra nel ventunesimo secolo.

Il problema è che il mondo non è più sicuro alla fine dell’epoca Obama di quanto lo fosse alla fine dell’era Bush. In quegli anni il problema era l’eccessivo interventismo, mentre oggi si potrebbe imputare questa situazione al relativo disimpegno degli Stati Uniti. Ma questa risposta è troppo facile ed è quella che danno di solito i sostenitori di una leadership statunitense vecchio stampo, in un mondo che però è completamente cambiato.

Si tratta forse della risposta che darebbe Hillary Clinton, probabile prossima presidente. In modo molto opportuno, in questi giorni Wikileaks ha reso pubblico un intervento dell’ex segretaria di stato in occasione di una conferenza a porte chiuse con la banca d’affari Goldman Sachs nel 2013.

Queste “fughe” di notizie, molto apprezzate dai mezzi d’informazione di propaganda russa, includono una critica implicita della passività di Obama in Siria, oltre alla preferenza di Clinton, che già si sentiva candidata alla presidenza, per la creazione di una no fly zone in Siria, un divieto di sorvolo del territorio siriano, accompagnata però da questa osservazione: “Per creare una no fly zone bisogna eliminare tutte le difese antiaeree siriane, tra cui molte installate in zone densamente abitate. E quindi i nostri missili, anche se sono guidati per non mettere in pericoli i nostri piloti, faranno molte vittime siriane”.

Si rischia di passare da un presidente contrario e riluttante a usare la forza, a una presidente che vuole l’opposto

In occasione del suo dibattito del 9 ottobre con Donald Trump, Hillary Clinton ha ribadito il suo desiderio di creare una no fly zone in Siria, ma non ha parlato delle possibili vittime, e soprattutto di un contesto strategico molto diverso poiché la Russia – in un clima da nuova guerra fredda – è direttamente coinvolta nel conflitto con la sua aviazione e non sembra molto disposta ad accettare questa decisione.

Si rischia quindi di passare tra qualche settimana da un presidente del soft power, contrario e riluttante a usare la forza, a una presidente che vuole riaffermare la potenza statunitense e priva di scrupoli nel ricorrere alle forze armate. Tutto ciò meriterebbe negli Stati Uniti più discussioni di quante ne permette il “diversivo” Trump.

Perciò è utile leggere il libro di Chris Hedges, un giornalista statunitense che è stato per vent’anni corrispondente di guerra su tutti i fronti e che ha scritto un’opera molto dura contro la guerra, dal titolo provocatorio Il fascino oscuro della guerra (Laterza 2004).

Nella prefazione all’edizione francese del 2016 del libro – uscito nel 2002, quindi dopo l’11 settembre e la guerra in Afghanistan ma prima dell’invasione dell’Iraq nel 2003 – Hedges spiega di averlo scritto “per mettere in guardia un paese sull’orlo della guerra. L’ho scritto perché odio chi esalta la guerra e ne trae profitto. Ma come succede in tutte le guerre, le lezioni del passato sono state ignorate, vanificate dall’ebbrezza della nuova crociata”.

La prefazione di Hedges fa il bilancio di 16 anni di guerre statunitensi nel mondo, “le più lunghe della storia degli Stati Uniti”, che rappresentano “il più grave errore strategico della storia americana, e probabilmente avranno l’effetto di distruggere la potenza imperiale degli Stati Uniti”.

Quest’analisi può sembrare eccessiva, ma il bilancio delle guerre occidentali degli ultimi vent’anni non sembra contraddire il suo giudizio, come del resto confermano lo stato di debolezza e di destabilizzazione nel quale si trovano oggi l’Afghanistan, l’Iraq o la Libia.

Un brutto spettacolo elettorale
Di conseguenza, per tornare alla nostra domanda iniziale, sarebbe stato necessario lanciare una nuova guerra nel 2013 in Siria? Obama risponde senza esitare di no, con la sua frase sorprendente citata nel documentario di Norma Percy. A quanto pare Hillary Clinton ha invece un’altra risposta, che però preferisce non dare per non indebolire il sostegno decisivo di Obama alla sua campagna elettorale.

Il mondo è condannato a questa unica alternativa? Le condizioni catastrofiche delle attuali relazioni internazionali, con la paralisi delle Nazioni Unite confermata dal veto russo alla risoluzione della Francia per imporre un cessate il fuoco ad Aleppo, lasciano poche speranze di trovare un’altra via.

Ma è innegabile che l’obiettivo principale dei prossimi anni dovrebbe essere quello di ritrovare la strada di un governo mondiale meno conflittuale, per impegnarsi nelle sfide rappresentate dai cambiamenti climatici, dalle disuguaglianze, dallo sviluppo economico e dal terrorismo.

Negli Stati Uniti questi obiettivi passano in secondo piano, e rischiano di diventarlo anche nella campagna elettorale francese. L’ebbrezza della guerra denunciata da Hedges finirà per imporsi senza discussioni? È qualcosa su cui meditare mentre osserviamo lo spettacolo vergognoso dei candidati alla presidenza della prima potenza mondiale.

(Traduzione di Andrea De Ritis)

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