19 maggio 2017 11:39

Il primo grande viaggio all’estero di un nuovo presidente degli Stati Uniti dovrebbe essere un momento importante, al tempo stesso personale e diplomatico. Quello che Donald Trump comincia il 19 maggio somiglia invece a un incubo, sia per lo psicodramma in corso in questi giorni a Washington, sia per la personalità del presidente.

I più ottimisti, dopo quasi quattro mesi alla Casa Bianca, pensavano che Trump stava cominciando a “normalizzarsi”, sotto l’influenza dei suoi collaboratori, i generali e suo genero Jared Kushner. E non si aspettavano nessuna (cattiva) sorpresa in vista del suo incontro con i leader europei dei paesi della Nato la settimana prossima a Bruxelles, ora che il presidente non considera più “obsoleta” la principale alleanza militare degli Stati Uniti.

Ma gli eventi degli ultimi giorni, dal licenziamento del direttore dell’Fbi James Comey fino alla rivelazione dei segreti di stato ai suoi interlocutori russi, passando per la nomina di un procuratore speciale sull’influenza della Russia sulle elezioni del 2016, hanno messo Washington in fermento.

Con la testa altrove
Siamo quindi di fronte a un presidente lame duck (anatra zoppa, espressione di solito usata per un leader a fine mandato), sulla difensiva, potenzialmente minacciato di destituzione se la maggioranza repubblicana non dovesse più sostenerlo, e che si accinge a partire per un viaggio complesso. Un presidente che avrà la testa altrove, nella capitale federale dove si gioca il suo destino, in uno scenario che rischia di distogliere nei prossimi mesi quel po’ di attenzione che era capace di riservare agli affari del mondo.

Prima di tutto si recherà in un Medio Oriente troppo complicato per le sue idee semplicistiche. Un viaggio già difficile per un capo di stato che dovesse attenersi a quanto convenuto con i suoi consiglieri, ma Trump è al tempo stesso incolto e inconsapevole dei suoi limiti, cosa che lo rende pericoloso o quanto meno imprevedibile.

Il terreno è ovviamente meno “minato” in Europa che in Arabia Saudita o in Israele, ma paradossalmente proprio in Europa è atteso con maggiore diffidenza.

Il vertice di Bruxelles sarà probabilmente un appuntamento educato senza grande interesse

Non deve sorprendere, Trump è molto più a suo agio con i dittatori o i leader autoritari che con dei capi di stato o di governo democratici. È diventato il migliore amico di Xi Jinping, il potente dirigente del Partito comunista cinese, dopo un fine settimana a Mar-a-Lago in Florida; il migliore amico del dittatore egiziano Abdel Fatah al Sisi, che ha ricevuto a Washington; il migliore amico del presidente turco Recep Tayyip Erdoğan nonostante la vasta repressione nel suo paese.

In compenso è sembrato in difficoltà con il suo vicino canadese Justin Trudeau o con la cancelliera tedesca Angela Merkel. Non ha cercato di sviluppare i suoi contatti con la vecchia Europa, che a quanto pare non ama così com’è, mentre ha mostrato grande entusiasmo per la Brexit e per i social network che lo hanno portato a sostenere Marine Le Pen in Francia e a produrre fake grossolane.

Il vertice di Bruxelles avrebbe potuto essere l’occasione per un “nuovo inizio”, come nelle storie d’amore e di disamore; ma questo sarà molto probabilmente un appuntamento educato senza grande interesse, dove non si dirà nulla di irrimediabile, nulla di fondamentale.

Una situazione assurda
Del resto si può avere oggi una discussione di fondo, peraltro necessaria, sul tipo di relazioni che i paesi della Nato vogliono avere con la Russia di Vladimir Putin quando il presidente degli Stati Uniti è sospettato, nel suo stesso paese, di aver beneficiato dell’influenza russa per farsi eleggere?

E che discussione si può avere sulla lotta contro il terrorismo jihadista con un presidente che ha tradito il segreto chiesto da uno dei suoi alleati per farsi bello davanti a una delegazione russa? Una situazione assurda.

Infine, che dibattito di fondo si può avere quando i capi di stato e di governo europei sono costretti a fare dei discorsi molto brevi perché la capacità di concentrazione del presidente degli Stati Uniti è molto limitata?

Insomma facciamo i nostri auguri a Emmanuel Macron, che dovrà prepararsi a un intero pranzo con Trump il 25 maggio a Bruxelles, in margine al vertice della Nato. Tutto li contrappone: l’età, l’esperienza di vita, la formazione intellettuale, la visione del mondo e anche il profilo delle loro mogli, come hanno crudelmente sottolineato i mezzi d’informazione statunitensi.

Il vertice di Bruxelles avrebbe potuto essere l’occasione per un “nuovo inizio”, come nelle storie d’amore e di disamore; ma questo sarà molto probabilmente un appuntamento educato senza grande interesse.

Il nuovo presidente francese, se vuole riuscire ad attirare la sua attenzione, farebbe bene a prepararsi qualche battuta degna di quei programmi televisivi che tanto piacciono a Trump.

La formazione del primo governo Macron fa pensare che la vecchia Europa sia passata al contrattacco

Tuttavia oggi l’interesse degli europei è avere dei rapporti cordiali con Washington e non reagire in modo eccessivo alle stravaganze di Trump. In un mondo ridiventato imprevedibile e pericoloso, l’Europa è oggi troppo fragile, troppo divisa, per fare da sé.

Ma gli europei sarebbero irresponsabili se non facessero tesoro di quello che sta succedendo adesso a Washington e non pensassero che sarebbe tempo di prendere in mano il loro destino collettivo. Non lo hanno fatto finora sul piano della sicurezza, rassicurati dalla presenza del “grande fratello” protettore americano.

In gennaio questo editoriale “ringraziava” Trump per aver offerto un nemico comune a degli europei disuniti. Da allora molte cose sono cambiate e prima i Paesi Bassi e poi in maniera ancora più convincente la Francia hanno dimostrato che non c’è un’inevitabilità populista.

La formazione del primo governo Macron ha confortato l’idea che l’ora del contrattacco della vecchia Europa potrebbe essere arrivata. In primo luogo contrattacco contro se stessa, contro l’idea stessa del suo declino e della sua obsolescenza.

Il carattere apertamente europeista del governo francese con personalità significative come l’eurodeputata Sylvie Goulard alla difesa o della sua collega del parlamento di Strasburgo Marielle de Sarnez agli affari europei, il nuovo nome del Quai d’Orsay ribattezzato ministero dell’Europa e degli affari esteri, per mostrare che l’Europa non è più l’estero, sono tutte cose che vanno nella direzione indicata da Macron durante la sua campagna.

Il viaggio a Berlino del neopresidente francese faceva parte tanto della tradizione franco-tedesca quanto della volontà strategica di non perdere tempo prezioso su questo fronte. La speranza è che questa dinamica ricominci a mettersi in movimento e, come scrive non un giornale europeo ma l’editorialista del New York Times Roger Cohen, “il 2017 potrebbe essere l’anno dell’Europa”.

Manca solo un elemento per risvegliare il continente, e l’incontro con Trump a Bruxelles potrebbe fornirlo: la scomparsa di un alleato affidabile e stabile dall’altra parte dell’Atlantico.

(Traduzione di Andrea De Ritis)

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