12 dicembre 2017 10:17

A cosa somiglierà il 2018 da un punto di vista delle relazioni internazionali? Guerra o pace? Scontro o cooperazione? Per ora sembra difficile parlare di distensione, ma spetta agli europei mostrarsi all’altezza di un mondo in decadenza.

Dopo un sinistro 2016 (attentati, Brexit, Trump, eccetera) tutti temevano il 2017, che in realtà si è rivelato meno peggio del previsto (tutto è relativo) in un clima internazionale globalmente negativo. La principale vittima del 2017 è stato il multilateralismo, la visione del mondo fatta di cooperazione tra gli stati per risolvere i problemi anziché ricorrere allo scontro diretto e alle dichiarazione bellicose. Questa tendenza negativa continuerà?

Cerchiamo di esplorare il 2018 attraverso cinque domande.

Scoppierà la guerra in Iran, in Corea del Nord o in entrambi i paesi?
A Washington molti si pongono la questione in questi termini. Donald Trump ha preso di mira questi due paesi, che rappresentano il suo personale “asse del male”. Il presidente americano ha molta voglia di farla finita con “rocket man” (come ha soprannominato Kim Jong-un) e con il paese dei mullah (al quale non ha ancora trovato un soprannome).

La Corea del Nord pone agli Stati Uniti un duplice problema: oltre all’arma nucleare che ha già dimostrato di possedere, sta sviluppando un programma di missili balistici teoricamente capaci di raggiungere il territorio americano e anche la sua capitale, Washington, e il suo leader sembra trovare un gusto particolare nel provocare direttamente il cowboy della Casa Bianca.

Trump ha messo in gioco la sua reputazione dicendo chiaro e forte che avrebbe risolto il problema, se necessario facendo “fuoco e fiamme”, ma i suoi generali e il suo segretario di stato Rex Tillerson sanno che un conflitto con la Corea del Nord avrebbe un costo umano molto alto e rappresenterebbe un reale rischio di escalation nucleare come il mondo non ha più conosciuto da decenni. Se Trump sostituirà Tillerson nelle prossime settimane, come annunciato da gran parte dei mezzi d’informazione statunitensi, il rischio sarà ancora più forte.

Il problema dell’Iran è invece di altra natura. Non minaccia direttamente gli Stati Uniti, ma gli “amici” di Trump nella regione (in particolare l’Arabia Saudita e Israele) lo considerano una minaccia diretta.

Alla fine del 2018 le elezioni di metà mandato che potrebbero decidere il destino di Trump

Inoltre Trump ha condotto una parte della sua campagna elettorale attaccando l’accordo nucleare firmato da Barack Obama con Teheran alla fine di un lungo negoziato internazionale e ha confermato questa posizione denunciando la “certificazione” dell’accordo, lasciando al congresso la decisione di imporre o meno nuove sanzioni all’Iran.

Un conflitto diretto o indiretto con l’Iran ha diversi vantaggi per Washington: gli Stati Uniti hanno degli alleati “motivati”, non c’è, come in Corea, uno scomodo vicino cinese e inoltre sarebbe una rivincita storica per i generali dei marines che non hanno mai perdonato all’Iran i loro 241 morti di Beirut nel 1983 (lo stesso giorno un attentato simultaneo era costato la vita a 58 francesi nell’edificio Drakkar).

L’unico problema è che secondo tutti i sondaggi gli statunitensi non hanno voglia di una nuova guerra dopo il decennio di scontri e di morti in Afghanistan e in Iraq. Basterà a fermare Trump?

Trump sarà ancora presidente?
Un altro modo di porre la domanda è quello di chiedersi se l’inchiesta sulla “russian connection” con la sua dose di scoop e di rivelazioni quotidiane ha già e avrà un impatto sul modo in cui Trump dirige gli Stati Uniti e definisce il suo ruolo nel mondo.

La risposta è ovviamente sì. La storia del novecento mostra fino a che punto Richard Nixon, il presidente messo in stato d’accusa e destituito per le sue bugie nel caso Watergate, fosse ossessionato dall’inchiesta che lo riguardava. “Tricky Dick”, “Richard il furbo”, ha condotto la guerra del Vietnam sempre pensando alla politica interna e alla sua stessa sorte, come ha mostrato bene una serie di documentari su questo grande conflitto della recente storia statunitense.

Alla fine del 2018 Trump ha un appuntamento importante, le elezioni di metà mandato che potrebbero deciderne il destino. Se il Partito repubblicano ne uscirà bene, il presidente – se fino ad allora non sarà coinvolto nell‘“inchiesta russa” – potrà sperare di sopravvivere fino alla fine del suo mandato con un congresso che gli sarà riconoscente. Se invece le elezioni andranno male per i repubblicani, affermare che il resto della presidenza di Trump sarà complicata è un semplice eufemismo.

In meno di un anno, Trump ha deciso di lasciare gli accordi di Parigi sul clima, ha sbattuto la porta in faccia all’Unesco e all’organizzazione dell’Onu sui migranti, ha “decertificato” l’accordo con l’Iran, rischia di riaccendere il conflitto israelo-palestinese, ha destabilizzato la rete di alleanze degli Stati Uniti in Europa e in Asia. Insomma per il 2018 è meglio allacciarsi le cinture di sicurezza.

Putin sarà rieletto?
Se esitate sulla risposta, allora dovete fare un po’ di ripasso. Vladimir Putin ha appena annunciato la sua decisione di ricandidarsi alle elezioni presidenziali del 18 marzo 2018, ma non bisogna essere dei fini esperti del Cremlino per prevedere che sarà rieletto a schiacciante maggioranza contro Ksenia Sobchak, la figlia dell’ex mentore di Putin, Anatoly Sobchak, che comunque non dovrebbe preoccuparlo più di tanto.

In questo modo, come faceva notare con perfidia un osservatore francese, Putin raggiungerà Stalin nel record di longevità al potere al Cremlino.

In un contesto di controllo assoluto del potere a Mosca rinnovato, rafforzato e ringiovanito con una sapiente dose di manager, di oligarchi, di tecnocrati e di collaboratori più discreti, Putin dispone di numerosi punti di forza.

Il modello cinese è l’antitesi del modello occidentale: un capitalismo autoritario e un settore privato strettamente controllato dal partito

Ha saputo sfruttare a suo vantaggio la guerra in Siria, è riuscito a sopravvivere alle sanzioni occidentali imposte dopo l’annessione della Crimea nel 2014 e dispone di una serie di alleanze più o meno solide che rompono l’isolamento nel quale pensavano di averlo messo gli occidentali. Dalla Cina alla Turchia o all’Iran, Putin non dispone dell’influenza dell’Unione Sovietica di un tempo, ma ha certamente delle carte a sua disposizione che lo hanno rimesso al centro della politica mondiale.

La sola domanda che poneva di recente un esperto europeo è quella di sapere se Putin avrà bisogno della guerra per mantenere la stabilità nel suo paese. Non dimentichiamo che in Russia l’economia, anche se si è stabilizzata dopo un periodo di crisi, rimane comunque molto dipendente dal settore degli idrocarburi.

In fin dei conti tranne qualche sorpresa sempre possibile, l’unico interrogativo che si pongono gli osservatori della Russia è quello di sapere che cosa succederà nel 2024, quando Putin a 70 anni potrebbe passare la mano. In quale stato lascerà il paese e a chi?

Il “modello cinese” sarà capace di sedurre?
La domanda può stupire, ma la Cina del presidente Xi Jinping – il cui potere si è considerevolmente rafforzato con il 19° congresso del Partito comunista di questo autunno – ha smesso di presentarsi con umiltà al mondo e afferma ormai in modo evidente la sua potenza e la sua influenza.

Il “modello cinese” è l’antitesi del modello occidentale: un capitalismo autoritario ribattezzato “socialismo dalle caratteristiche cinesi” fondato sulla meritocrazia al vertice, su uno stato forte, su un’assenza di separazione dei poteri e di quelle libertà così care in occidente (libertà di stampa, di associazione, di religione, di sindacato e così via) e su un settore privato strettamente controllato dal partito.

La forza di questo modello è la sua efficienza, che contro ogni aspettativa ha reso l’economia cinese, senza fare alcuna concessione politica, la seconda – e probabilmente, un giorno, la prima – del mondo e una delle più innovative. Un risultato che ha fatto crollare interi settori delle teorie politiche.

È proprio la voce dell’Europa che manca in questo mondo attraversato da pulsioni nazionaliste e populiste

Di fatto molti paesi del mondo in via di sviluppo guardano con invidia e ammirazione più a Pechino che a un occidente sempre meno credibile, indebolito e disunito, tanto più che la Cina, con le sue nuove “vie della seta” ha una strategia di influenza nel mondo accompagnata da generose elargizioni di fondi.

Per conquistare nuovi “amici” Pechino arriva ormai anche in Europa con la sua strategia di infrastrutture finanziate senza le abituali costrizioni internazionali. Così la Cina ha creato il vertice “16+1” che riunisce i 16 stati europei dei Balcani e anche alcuni dei membri dell’Unione europea dell’Europa centrale e orientale, che hanno beneficiato della sua generosità e di consistenti investimenti in cambio di una politica compiacente.

Questa tendenza continuerà nel 2018? Certamente. Il rullo compressore cinese non ha molto da temere in questo periodo, soprattutto da Trump e dalla sua incoerente politica.

L’Europa saprà sfruttare l’occasione per rilanciarsi?
Questa è in fin dei conti la domanda più difficile per il 2018. La depressione europea del 2016 dovuta alla Brexit e poi all’elezione di Trump che lasciavano intravedere un’irresistibile ondata populista ha ceduto il passo al relativo sollievo del 2017, nonostante i tanti voti ottenuti dai populisti e dall’estrema destra anche in Germania.

Emmanuel Macron, l‘“eroe” europeo del 2017 approfitta chiaramente dell’eclissi britannica dovuta al disastro storico della Brexit e di una Germania temporaneamente assorbita nei suoi complicati negoziati postelettorali, per mostrarsi come il leader di un’Europa in procinto di rilanciarsi. Il presidente francese ha presentato le sue proposte in un discorso alla Sorbona e spera di disporre nel 2018 di un partner tedesco suscettibile di avanzare insieme verso una futura Europa probabilmente a diverse velocità.

Ma il successo non è garantito in un continente che nell’ultimo decennio ha imparato a deludere e a mancare i suoi appuntamenti con la storia. Tuttavia è proprio la voce dell’Europa che manca in questo mondo attraversato da pulsioni nazionaliste e populiste, presenti anche all’interno dell’Ue (particolare attenzione si dovrà prestare nella primavera del 2018 al pericoloso appuntamento elettorale in un grande paese come l’Italia), e minacciato da avventure militari dalle conseguenze imprevedibili.

L’Europa è l’unica in grado di garantire, grazie alla sua esemplarità, la pace e un alto livello democratico, sociale, ambientale e umano. Tutti elementi che solo in questo continente sono in cima a tutte le preoccupazioni, anche se questa esemplarità è ben lontana da essere perfetta in tutti i suoi “28” membri. Ma per fare questo è necessario che l’Europa lo voglia, che i suoi popoli l’accettino. Nel 2018 bisognerà cogliere questa opportunità, che difficilmente si ripresenterà così presto.

(Traduzione di Andrea De Ritis)

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