22 febbraio 2018 09:45

Nelle librerie di Johannesburg i settori dedicati alla politica sono improvvisamente invecchiati. In pochi giorni i libri su Jacob Zuma sembrano evocare un’epoca lontana che in realtà è finita solo il 14 febbraio, con le dimissioni forzate del presidente sudafricano, sostituito l’indomani dal suo vicepresidente, Cyril Ramaphosa. E il clima politico è improvvisamente cambiato.

Sugli scaffali domina ancora l’eco degli “anni neri”, quelli della state capture, il sistema di corruzione radicato al cuore dell’apparato statale e descritto in dettaglio da un libro pubblicato in autunno, The president’s keepers: those keeping Zuma in power and out of prison (I custodi del presidente. Quelli che mantengono Zuma al potere invece che in prigione), del giornalista investigativo sudafricano Jacques Pauw. Zuma aveva tentato di farlo vietare, riuscendo solo a trasformarlo in un assoluto best-seller.

Altri libri evocano un Sudafrica “che sta per diventare uno stato fallito”, oppure i “bastardi di Zuma”, o ancora raccolte di caricature dell’ex presidente, che il caricaturista principe del paese, Zapiro, non si stanca di ritrarre con una cuffia da doccia in testa, un riferimento a quando si giustificò, nel corso del suo processo (vinto) per lo stupro di una giovane donna sieropositiva, affermando di essersi protetto dall’hiv facendosi una doccia.

Doloroso risveglio
Comunque Jacob Zuma è ormai lontano, anche se il Sudafrica continuerà a vivere anni difficili dopo il quasi decennio perso durante il governo di questo presidente cacciato dal suo partito, l’African national congress (Anc), esattamente come aveva fatto lui per silurare il suo predecessore, Thabo Mbeki.

Sarebbe però riduttivo dire che lo “Zexit”, l’allontanamento di Zuma, come lo chiamano i mezzi d’informazione parafrasando la Brexit, ha trasformato il clima politico e ridato linfa vitale all’“eccezionalismo” sudafricano, il sentimento nato quando Nelson Mandela celebrava la nazione arcobaleno e il mondo intero lo acclamava come un’icona di riconciliazione e umanità.

Dopo il ritiro di Mandela, al termine di un unico mandato, e ancora di più dopo la sua morte nel dicembre 2013, il Sudafrica ha conosciuto la disillusione, una sorta di doloroso risveglio dopo un sogno troppo bello per essere vero. In questi ultimi anni ha temuto di sprofondare in quella che i più pessimisti chiamavano l’ineluttabile “zimbabwizzazione” nazionale, in riferimento al paese vicino, portato alla rovina dai capricci di un liberatore divenuto despota.

Ramaphosa era stato l’erede designato da Mandela, che lo aveva visto all’opera negli anni novanta

Ma poi è arrivato Cyril Ramaphosa, il figliol prodigo del grande uomo. Oggi regna infatti nei mezzi d’informazione, nella classe politica, nelle élite bianche e nere del paese e in una parte dell’opinione pubblica di questo paese-mosaico, un inatteso senso di “ritorno” all’era Mandela. Tutto questo grazie all’elezione di Cyril, come lo chiamano tutti senza bisogno di citare il suo cognome.

Ramaphosa era stato infatti l’erede designato dal vecchio leader, che lo aveva visto all’opera negli anni novanta durante i negoziati di fine apartheid con il potere bianco. Ma l’Anc, la più vecchia formazione politica del continente nero, possiede i suoi codici di legittimità e influenza che neanche Mandela ha potuto scalfire. E così è stato Thabo Mbeki, figlio di un compagno di prigione di Nelson Mandela di nome Govan Mbeki e a sua volta alto responsabile dell’Anc in esilio a Lusaka durante gli anni bui della lotta di liberazione, a essere preferito a Cyril, un uomo dal pedigree meno aristocratico e soprattutto prodotto della lotta interna in Sudafrica, marginalizzata rispetto ai membri “storici” in esilio.

L’unico errore
Relegato ai margini del potere, Ramaphosa si è dedicato agli affari, approfittando al massimo del black empowerment, la cooptazione di una piccola élite nera all’interno del quasi impenetrabile mondo dei ricchissimi imprenditori bianchi del Sudafrica, proprietari delle miniere, delle industrie e dei patrimoni immobiliari di questa potenza economica. Il suo successo ha fatto di lui un uomo in vista, ma l’ha spinto a commettere anche l’unico e grave errore di un percorso altrimenti impeccabile, che porta il nome di Marikana.

Marikana è il nome di una miniera di platino dove la polizia sudafricana si è resa responsabile di un vero e proprio massacro il 16 agosto 2012, uccidendo 12 persone e ferendone 78, perlopiù sparandogli alla schiena, per disperdere uno sciopero divenuto violento. Cyril Ramaphosa era l’amministratore dell’azienda mineraria proprietaria del sito e ha approvato l’invio di poliziotti contro i minatori, anche se non poteva prevedere la brutalità della repressione.

Uno degli elementi di questa equazione dalle molte incognite è la questione della terra, rubata ai neri all’inizio del ventesimo secolo

Malgrado questa macchia indelebile, su Cyril Ramaphosa si concentrano oggi le speranze dei sudafricani di vedere il loro paese imboccare nuovamente la strada della speranza. Anche l’opposizione sembra toccata dalla grazia, nonostante fosse in guerra aperta con il suo predecessore, come se i mali del Sudafrica fossero opera di un uomo solo.

Il 20 febbraio all’alba il nuovo presidente si è concesso il lusso di una passeggiata a piedi in un quartiere popolare, accompagnato da un servizio di sicurezza molto poco appariscente, ironizzando con gli abitanti sul suo bisogno di esercizio fisico per “ridurre la pancia”. Lo stesso pomeriggio ha detto davanti al parlamento di Città del Capo che lo specchio del suo successo o del suo fallimento non sarà la variazione del prodotto interno lordo, bensì la sua “capacità di cambiare la vita dei sudafricani più fragili”.

Se l’economia fosse solo una questione psicologica, il Sudafrica sarebbe già salvo, perché questa parte del contratto è già stata onorata, in tre o quattro giorni, grazie a un semplice messaggio: “South Africa is back”.

La psicologia è importante, ma non basta. Ramaphosa ha di fronte vari compiti:

  • combattere la corruzione lasciata dal suo predecessore, all’interno del governo che ha ereditato e nel partito che lo ha nominato al vertice dello stato;
  • ridare fiducia agli investitori nazionali ancor prima di poter sperare di attirare quelli del resto del mondo, rimasti delusi da un Sudafrica che non ha mantenuto le sue promesse;
  • far rinascere la speranza di milioni di esclusi di questo paese, i quali hanno creduto che con la fine dell’apartheid sarebbe finita anche la loro miseria, e che quindi non sono propensi a credere nuovamente alle promesse di un politico, pure se simpatico.

Uno degli elementi di questa equazione dalle molte incognite è la questione della terra, letteralmente rubata ai neri all’inizio del ventesimo secolo. Nel discorso sullo stato dell’unione, pronunciato il giorno dopo aver assunto il suo incarico, Cyril Ramaphosa ha ripreso una vecchia rivendicazione dell’Anc, sostenuta oggi invece dall’opposizione radicale: la redistribuzione delle terre senza concedere compensazioni agli attuali proprietari bianchi. Non ha spiegato come, anche perché è improbabile che questo imprenditore navigato intenda procedere con le maniere forti usate da Mugabe in Zimbabwe, facendo così precipitare il suo paese nella spirale del declino economico.

Per ora lo stato di grazia funziona perfettamente per un uomo di 65 anni che ha già vissuto varie vite nel corso della sua esistenza e che incarna oggi, con la “nuova era” che ha annunciato, la speranza di rinverdire il messaggio di Nelson Mandela, di cui quest’anno il Sudafrica celebra il centenario della nascita. In parlamento, il 16 febbraio, è stato il nipote di Nelson Mandela a sostenerlo con queste parole, vestito con un abito africano molto elegante e a braccetto della sua moglie bianca. Un riassunto del Sudafrica del ventunesimo secolo, un paese che non finisce mai di stupire.

(Traduzione di Federico Ferrone)

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