20 marzo 2018 10:04

Per cogliere la portata di quanto appena successo in Cina, basta osservare le eloquenti prime pagine del Quotidiano del popolo, l’organo centrale del Partito comunista cinese (Pcc). Nel 2003, 2008 e 2013, durante le precedenti elezioni e rielezioni dei presidenti cinesi da parte dell’Assemblea del popolo, erano presenti le foto dei principali dirigenti. Anche nel 2013, quando Xi Jinping ha dato avvio al suo primo mandato.

Nel 2018, l’avrete indovinato, sulla prima del Quotidiano del popolo appare solo un volto: quello di Xi Jinping. Addio direzione collegiale voluta da Deng Xiaoping tre decenni prima per evitare alla Cina le derive dell’accentramento del potere alla Mao Zedong.

Il Quotidiano del popolo

Lo stesso Deng Xiaoping spiegava così il suo approccio nel 1982: “Non è positivo avere una grande concentrazione di potere. Questo turba il funzionamento della democrazia socialista e del centralismo democratico del partito, frena il progresso della costruzione socialista e c’impedisce di beneficiare pienamente della saggezza collettiva”.

Pronunciata oggi, questa citazione apparirebbe come un atto d’accusa al modo in cui viene esercitato il potere dal presidente Xi Jinping, e il suo autore avrebbe non pochi grattacapi. La data di questa citazione è rivelatrice: quattro anni dopo la morte di Mao Zedong e l’eliminazione della Banda dei quattro. Deng Xiaoping voleva dotare il Partito comunista cinese di regole di governo che evitassero la centralizzazione del potere, il culto della personalità o i dirigenti a vita, che avrebbero rischiato di ripetere i catastrofici errori del “grande timoniere”.

I precetti di Deng hanno funzionato bene fino a oggi, con direzioni collegiali, un limite di due mandati da cinque anni ciascuno e una relativa sobrietà ai vertici che segnava una rottura con lo statuto di dio vivente di Mao. Fino alla svolta avviata con l’arrivo alla testa del partito di Xi Jinping, nel 2012.

Un potere senza eguali
Xi Jinping è già il dirigente cinese dotato di più potere dai tempi di Mao, in un momento storico nel quale la Cina è, a sua volta, più potente di quanto non sia mai stata da secoli. Xi ambisce a fare della Cina la prima potenza di un mondo che sta per diventare, agli occhi di Pechino, “postoccidentale”, nel quale cioè gli attori dominanti degli ultimi due secoli non avranno più i mezzi per realizzare le loro ambizioni.

Il numero uno cinese esce dalla sessione parlamentare appena conclusa ancora più rafforzato se si pensa che ha designato come suo vicepresidente un uomo di 69 anni, quindi teoricamente troppo anziano per questa carica, ma nel quale Xi Jinping ha piena fiducia: Wang Qishan, che ha condotto negli ultimi cinque anni la lotta contro la corruzione. L’uomo dovrebbe occuparsi della nuova fase delle relazioni sino-statunitensi: una sorta di Kissinger cinese, insomma.

I paesi occidentali hanno appena preso le misure a Xi Jinping, il quale, a 64 anni, sarà verosimilmente al cuore della scena internazionale ancora per molto tempo, con un potere assoluto e ineguagliato, perfino nella Russia di Vladimir Putin.

Sono stati presi di sorpresa dalla riforma costituzionale, che ha abolito il limite dei due mandati e che nessuno si attendeva così presto. Se Xi Jinping ha fatto precipitare le cose, è stato per inviare un doppio messaggio:

  • Innanzitutto, quello della sua potenza personale, che non trova più, in seno al Partito comunista, la minima resistenza a un’evoluzione che pure non piace a tutti. La lotta alla corruzione ha eliminato dei dirigenti corrotti ma anche, e forse soprattutto, dei potenziali rivali.
  • A seguire, quello relativo al primato del partito sullo stato e alla fine del progetto, immaginato tempo fa da Deng Xiaoping e dai suoi successori, di separazione tra partito e stato. Oggi è chiaro che la Cina è dotata di un “partito-stato” destinato a durare e controllato dal Pcc.

Il prezzo da pagare per quest’ambizione è un potere sempre più autoritario, che ha eliminato tutti i contrappesi

Xi Jinping può quindi immaginare di restare al potere per molti anni, oltre il termine del suo secondo del mandato. È anche riuscito, da vivo, a iscrivere il suo “pensiero” sul “socialismo della nuova era” all’interno della Carta del Partito comunista cinese e a farsi chiamare lingxiu, ovvero “il leader”, una formula che non veniva utilizzata dalla fine dell’epoca maoista, eliminando il principio della collegialità caro a Deng Xiaoping, a vantaggio di un potere personale assoluto.

Potrà così condurre il paese verso i suoi prossimi obiettivi, che corrispondono a degli anniversari più che simbolici: i cento anni della fondazione del Pcc del 1921 e soprattutto il centenario della proclamazione, da parte di Mao, della Repubblica popolare cinese, il 1 ottobre 1949. Durante questo periodo la Cina dovrà diventare un paese di “piccola”, poi “media” prosperità, oltre che “moderno”, ridivenendo la prima potenza mondiale, com’era prima dello scontro con gli occidentali a metà del diciannovesimo secolo.

Il prezzo da pagare per quest’ambizione è un potere sempre più autoritario, che ha eliminato tutti i contrappesi: quelli istituzionali all’interno del partito e quelli che erano cominciati a emergere all’interno della società civile, come avvocati, ong, blogger e così via, tutti vittime di una severa repressione.

Molti cinesi, all’interno dell’élite politica ed economica, accettano questa logica e ammettono che questo potere iper-centralizzato e autoritario è efficace nel permettere a un paese di 1,4 miliardi di abitanti di raggiungere i propri obiettivi. Le prestazioni economiche del paese, e la sua crescente statura internazionali, li portano a vivere il potere assoluto del “lingxiu” come un male minore.

Ma ci sono anche molti cinesi, in particolare tra gli intellettuali e la classe benestante, che temono le derive di questo potere assoluto che nessuno osa più contestare, se si escludono alcune prese in giro sui social network, velocemente cancellate da una ciberpolizia sempre più efficace grazie ai progressi della tecnologia di sorveglianza cinese.

Il riferimento più pertinente è senza dubbio quello a un imperatore, più ancora che a Mao e alla sua ideologia accecante. Xi Jinping, che ha riabilitato i riferimenti alla cultura cinese tradizionale e agli insegnamenti, un tempo aborriti, di Confucio, si considera indubbiamente come un imperatore dei tempi moderni, duro ma benevolo e soprattutto pragmatico ed efficace. E che, come l’imperatore Qialong rimasto al potere dal 1735 fino alla sua abdicazione nel 1796, ha incarnato un’età dell’oro cinese poi scomparsa.

Quest’ascesa della potenza cinese, che molti occidentali speravano si sarebbe liberalizzata col tempo, ma che adotta invece oggi la strada opposta, obbliga il resto del mondo a cambi di rotta laceranti. A cominciare da Washington, dove Donald Trump gioca col fuoco della guerra commerciale, e dice di voler “contenere” la Cina, riprendendo il vocabolario della guerra fredda.

Ma niente, all’interno o all’esterno, sembra in grado oggi di minacciare il “sogno cinese” di Xi Jinping. Un “sogno” che si nutre ormai della sua permanenza al potere per tutto il tempo necessario. Nella buona e nella cattiva sorte.

(Traduzione di Federico Ferrone)

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