17 gennaio 2016 11:03

Molti analisti questa settimana hanno ricordato i cinque anni dalla caduta dell’ex presidente tunisino Zein el Abideen Ben Ali, il primo di numerosi dittatori arabi cacciati da manifestazioni spontanee. Un esame retrospettivo che è utile per capire se esiste la possibilità di altre rivolte e perché quella del 2011 abbia perso posizioni negli ultimi anni.

Le ragioni alla base delle rivolte e delle rivoluzioni del 2011 – lo stato autocratico e il malcontento popolare – sono più forti che mai in gran parte del mondo arabo. Fanno eccezione la gran parte degli stati del Golfo, ricchi grazie alle riserve energetiche, e le piccole sacche di ricchezza in gran parte delle capitali arabe, tenute a galla dai finanziamenti provenienti dal Golfo e dal sostegno politico e militare occidentale.

Malessere condiviso

Le difficoltà vissute nel 2011 da milioni di famiglie – che non riuscivano a soddisfare i bisogni di base dei loro figli né a promettergli una vita migliore – sono ancora presenti nei nostri sistemi scolastici, nelle nostre strutture di potere corrotte e spesso incompetenti, nel controllo sociale esercitato dalle forze di sicurezza, nell’enorme spazio lasciato al lavoro informale, nei livelli di benessere stagnanti o in declino.

Le rivolte in sei paesi arabi all’inizio del 2011 avevano ricevuto sostegno e solidarietà da tutto il mondo arabo perché il malessere da cui nasceva la richiesta di libertà e dignità espressa dai manifestanti era condiviso da centinaia di milioni di persone in tutta la nostra regione.

Le rivolte arabe hanno prodotto una chiarezza necessaria su ciò che significa l’islam politico nella pratica

Di conseguenza, sembra giusto aspettarsi che un giorno la regione araba avrà nuove opportunità per ottenere le vere trasformazioni democratiche che non si sono concretizzate nei cinque anni appena trascorsi.

Non possiamo prevedere come e quando questo succederà, ma possiamo analizzare la nostra situazione attuale per identificare delle tendenze. È raro che io mi trovi d’accordo con le opinioni espresse dagli editoriali della rivista britannica The Economist, che ogni tanto indugia su posizioni colonialiste quando si tratta di sud del mondo. Tuttavia, devo ammettere che l’analisi della scorsa settimana intitolata con poca immaginazione “The arab winter”, l’inverno arabo, era straordinaria.

Lo dico perché ha colto quelli che secondo me sono i due dilemmi centrali nel mondo arabo di oggi: il rapporto con i rispettivi stati e la capacità di comprendere ciò che deve essere cambiato – e come favorire questo cambiamento – per superare autocrazie politiche e disagio socioeconomico arrivando al pluralismo democratico e al benessere materiale. Si legge sull’Economist:

Alla base del marciume, in Egitto come altrove, c’è l’incapacità dimostrata da generazioni di élite arabe di creare modelli di governo responsabili ed efficaci e di promuovere l’istruzione. Dopo circa 60 anni di un dominio essenzialmente fascista – il consenso forzato per un patriarca coperto di medaglie, la pompa, le parate e la propaganda che mascherano una realtà in cui il popolo non ha alcuna voce in capitolo – non c’è da stupirsi se il contraccolpo si è manifestato in modo inarticolato e privo di una direzione precisa. Le rivoluzioni arabe hanno prodotto pochi leader, pochi programmi credibili e poche idee. Hanno tuttavia prodotto una chiarezza necessaria su ciò che significa l’islam politico nella pratica, sul posizionamento degli arabi rispetto al resto del mondo e al loro interno e su quali siano le debolezze e le forze degli stati e delle società arabe.

Queste osservazioni fotografano in modo preciso la difficile strada da percorrere per ottenere un cambiamento democratico duraturo, e identificano le forze centrali che dalla metà del secolo scorso si sono scontrate nella nostra regione: la richiesta di buon governo e di sviluppo sostenibile e giusto da parte dei singoli cittadini, le imprevedibili interazioni dei cittadini con lo stato onnipotente, le promesse e i fallimenti dell’“islam politico”, l’enorme potere degli eserciti e dei regimi che essi sostengono, gli interventi interni ed esterni al mondo arabo per mantenere lo status quo, i cambiamenti necessari nel governo della cosa pubblica ma anche nella società, nella famiglia e nei singoli individui affinché possa mettere radici un sistema democratico stabile.

Gran parte di queste forze – gli stati e i regimi di sicurezza, gli interventi interni ed esterni, gli islamisti nella sfera pubblica – non sono cambiate molto negli ultimi cinque anni. Ciò che è cambiato, però, e ciò che al tempo stesso definisce questo momento storico, è la nuova consapevolezza e il nuovo realismo germogliato nelle menti di diverse centinaia di milioni di arabi, che vivono ancora in condizioni difficili e che per questo continueranno a cercare una vita migliore nei loro paesi.

La maggioranza degli arabi rifiuta le opzioni attualmente disponibili, l’emigrazione illegale o l’adesione al gruppo Stato islamico. Ma non si tratta di rassegnazione. Sono più consapevoli, i loro occhi sono aperti, perché per adesso le speranze nate nel 2011 sono state abbandonate. Oggi come ieri non sappiamo in che modo questi cittadini scontenti trasformeranno le loro paure in azioni politiche. Sappiamo però che lo faranno. Perciò, gli implacabili regimi arabi hanno di fronte popolazioni molto più pericolose di quelle del 2011.

(Traduzione di Giusy Muzzopappa)

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