11 agosto 2015 12:38

Mentre il governo ieri suonava la grancassa – via Twitter, come sempre – sui dati Inps riguardanti i nuovi contratti di lavoro, passava inosservato un altro numero, diffuso dall’Istat: 0,6 per cento. Una piccola percentuale che misura i posti vacanti, in pratica quanti sono i posti di lavoro delle imprese che risultano ancora da occupare, in rapporto alla somma tra il numero dei posti vacanti e quelli occupati.

Un aumento dei posti vacanti ci dice che le imprese stanno cercando personale, cioè che il ciclo economico si sta invertendo. Purtroppo, quello 0,6 per cento è miseramente stabile, nel secondo trimestre 2015, rispetto al periodo gennaio-marzo.

Calma piatta. Un piccolo indicatore della congiuntura, che conferma quello che il presidente dell’Istat Giorgio Alleva aveva detto qualche giorno fa in un’intervista al Fatto Quotidiano, della quale ha smentito l’intento polemico ma non la sostanza: la ripresa economica in atto è ancora troppo debole perché si possa vedere un suo effetto statisticamente significativo sul mercato del lavoro. E infatti, gli ultimi dati Istat, quelli di giugno, mostrano che la variazione tendenziale dell’occupazione è del -0,2 per cento.

Un’approssimazione non accettabile

Ma allora, perché quei dati rosei sui contratti, prontamente usati a scopo politico, di fonte Inps e di fonte ministeriale? E come districarsi nella marea di dati sul lavoro che hanno invaso la nostra comunicazione politica, con una mole e un’ansia da prestazione quantitativa mai viste prima?

Alla prima domanda ha dato risposta lo stesso presidente dell’Istat nell’intervista citata: “Valutare il saldo tra attivazione e cessazione dei contratti come se fosse un aumento di teste, cioè di occupati, è un’approssimazione non accettabile”.

Da gennaio, si può assumere a tempo indeterminato senza spendere un euro in più in contributi

Una sola persona può avere più contratti nel corso di un anno, e questo fa crescere i numeri dell’Inps senza che sia aumentata l’occupazione complessiva. Dunque, il saldo positivo rilevato dall’Inps tra attivazioni e cessazioni nei primi sei mesi del 2015 è una buona notizia, ma fino a un certo punto.

Per motivi stagionali, nella prima metà dell’anno ci sono sempre più attivazioni che cessazioni, mentre succede l’opposto nella seconda metà. Per capire davvero se la rotta si è invertita, occorrerà aspettare il bilancio di tutto l’anno.

Per ora sappiamo che il saldo positivo di gennaio-giugno 2015 è più consistente di quello dello stesso periodo del 2014: + 314.936, per la precisione. E in particolare, è aumentata la quota delle nuove assunzioni a tempo indeterminato: che prima erano il 33 per cento delle nuove assunzioni, adesso sono il 40 per cento.

E ci mancherebbe. Da gennaio si può assumere a tempo indeterminato senza pagare dazio, cioè senza spendere un euro in più in contributi, grazie agli sgravi previsti nella legge di stabilità.

A questo si aggiunga il fatto che, grazie al jobs act in vigore da marzo, quel “tempo indeterminato” non è più equivalente a “posto fisso”, poiché è caduto il vincolo al licenziamento costituito dall’articolo 18.

I soldi messi sul piatto dal governo e la maggiore libertà per le imprese nel licenziare hanno spostato i contratti verso il tempo indeterminato? La risposta è: sì, in parte. E questo non è un effetto da poco: per una persona in carne e ossa, passare dal cocopro (addirittura dal nero) al contratto a tutele crescenti significa potersi ammalare senza paura di perdere il lavoro, avere la maternità, e contributi per la pensione (pagati dallo stato). Il combinato effetto degli sgravi e del jobs act ha aumentato l’occupazione? La risposta è: per ora, no.

Febbre comunicativa

Anche nel breve spazio di un tweet con citazione di Califano, perciò, sarebbe bene evitare “approssimazioni non accettabili”.

E, passando dalla comunicazione all’azione politica, cercare di evitare un altro effetto possibile del doping della decontribuzione: ossia che la fiammata di contratti a tutele crescenti sia solo temporanea, e si spenga appena finiscono gli sgravi contributivi. Che, ricordiamolo, durano tre anni. Al termine dei quali, un’impresa si troverà con contratti che costano di più, che potrà far cessare con un tratto di penna se non se li può permettere.

La ripresa è troppo debole per avere ricadute importanti sul lavoro

Cioè se l’economia non “tira” abbastanza, e/o se non ha investito nel modo giusto per sfruttare la combinazione di fattori incredibilmente positiva di questa prima parte del 2015: sgravi contributivi, euro debole, petrolio basso. Su questo sapremo qualcosa di più già venerdì, quando l’Istat – fonte ufficiale e indipendente di statistiche – darà i dati sul prodotto interno lordo. E molto di più nei prossimi mesi.

Nel frattempo, si spera che il coordinamento dell’informazione statistica sul lavoro, annunciato fin da maggio ma che muoverà i primi passi da settembre, faccia cessare una febbre comunicativa che può disorientare, e far pensare che non c’è niente di reale ma tutto di opinabile anche nei numeri dell’economia e dell’occupazione.

Che invece sono abbastanza chiari: da qualche mese assistiamo a una piccola ripresa economica, concentrata in alcune zone d’Italia – il sud ne è quasi del tutto estraneo – orientata alle esportazioni e a basso contenuto di occupazione.

Non perché siamo in presenza della cosiddetta jobless recovery – una ripresa senza lavoro – ma perché la ripresa è troppo debole per avere un impatto importante sul lavoro. In questo contesto, il lavoro che c’è sta riorganizzando le sue forme contrattuali, rispondendo agli incentivi monetari e giuridici elargiti dal governo.

Una controprova? La riduzione dei contratti di apprendistato, le cui assunzioni sono scese del 9 per cento dal primo semestre 2014 ai primi sei mesi del 2015. Usato più per assumere con sgravi contributivi che per formare davvero i giovani, l’apprendistato non è mai davvero decollato e adesso ha perso il suo (poco) appeal in favore del contratto a tutele crescenti. Ma in questo taglia-e-cuci di formule contrattuali, alla ricerca del minimo costo con il minimo sforzo, succede che si perda di vista la domanda centrale: perché assumere, e per fare cosa?

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