10 giugno 2015 13:02
La cancelliera tedesca Angela Merkel e il presidente statunitense Barack Obama davanti al castello di Elmau, in Germania, l’8 giugno 2015. (Michael Kappeler, Reuters/Contrasto)

Tutto sarebbe molto più semplice in un mondo in cui le decisioni politiche dei leader fossero magicamente capaci di trasformarsi in fatti. Ma nel mondo reale le parole quasi sempre finiscono in nulla. A maggior ragione quando di mezzo ci sono grandi interessi economici.

Questa premessa per dire che c’è ragione di essere soddisfatti per la firma a Elmau, in Baviera, messa dai paesi del G7 (Francia, Germania, Giappone, Italia, Regno Unito, Stati Uniti e Canada) all’intesa sul clima, che stabilisce di evitare un aumento della temperatura globale di due gradi per scongiurare un disastro climatico.

Una premessa, però, per dire anche che l’unico modo per far rispettare questo impegno è tagliare subito e in modo drastico le emissioni di gas serra e investire in modo consistente e immediato in tecnologie pulite, da diffondere ovunque a partire dai paesi in via di sviluppo. E perché questo avvenga non sono sufficienti le dichiarazioni di principio. Anche se sono formulate in pompa magna dai leader delle economie più ricche del mondo.

Insomma, l’accordo di Elmau è in teoria un’ottima notizia e un fatto molto importante, ma potrebbe anche rivelarsi l’ennesimo ininfluente annuncio senza effetti concreti.

Proviamo a vedere perché è un evento forse storico. Ce ne ricorderemo perché è la prima volta che i sette paesi più ricchi e industrializzati del pianeta riconoscono quello che la scienza dice da molto tempo: è in corso un aumento della temperatura globale, non superare i due gradi può limitare le conseguenze catastrofiche, per farcela bisogna tagliare la maggior parte delle emissioni di gas serra entro il 2050 per arrivare a riduzioni delle emissioni globali del 40-70 per cento entro la metà del secolo.

Non è mai stato detto in modo tanto netto. È fondamentale che questo impegno alla decarbonizzazione delle economie del mondo sia stato preso quest’anno, lo stesso della conferenza di Parigi che dovrà portare a un’intesa globale su questi temi. Va dato merito alla cancelliera tedesca Angela Merkel di aver “costretto” a questo impegno anche tre paesi totalmente restii ad accettare limitazioni su questo versante, come Giappone e Canada, dopo quanto ha già fatto la Cina nei mesi scorsi.

Tuttavia, è un impegno forse tardivo: la concentrazione atmosferica media di anidride carbonica ha toccato le 400 parti per milione, e fermare il processo in corso potrebbe essere impossibile.

Ancora, il riconoscimento “politico” dei paesi del G7 arriva in ritardo, e solo dopo il “riconoscimento” già operato dal mercato: nei paesi industrializzati – nonostante i sussidi pubblici vadano di più alle fonti fossili che alle rinnovabili – gran parte della potenza elettrica installata è pulita. E come si è visto, con la recente lettera dei sei colossi degli idrocarburi europei (Eni compresa), anche in quegli ambienti c’è la consapevolezza che una carbon tax sia inevitabile. Tuttavia, finora i governi hanno stanziato poco o niente per la “finanza climatica”, ovvero per favorire la diffusione nei paesi più poveri delle tecnologie “pulite”.

Per il governo guidato da Matteo Renzi l’ambiente non sembra un tema centrale. Anzi: al presidente del consiglio non interessa molto il tema, se non (un pochino) sul versante della tutela del paesaggio

E in tutto questo, che fa l’Italia? Sembra per fortuna lontana la stagione di Silvio Berlusconi e della ministra dell’ambiente Stefania Prestigiacomo, quando il nostro paese sostanzialmente era un fattore (per fortuna non molto rilevante) di freno per tutti gli sforzi di contenimento delle emissioni climalteranti.

Corrado Clini (allora direttore generale del ministro dell’ambiente, poi con Mario Monti addirittura ministro) spiegava apertamente che era tutto inutile, che tanto né la Cina né gli Stati Uniti avrebbero preso delle misure concrete, che l’Europa faceva male a penalizzare la sua “competitività” imponendo regole green alle sue imprese (cioè, in realtà, a impedire alle aziende inquinanti di scaricare sull’ambiente e sulla collettività i loro costi).

Positiva è stata la parentesi di Andrea Orlando al vertice del ministero, con il governo di Enrico Letta. E tutto sommato anche Gian Luca Galletti dell’Udc, attuale ministro dell’ambiente, non solo non sta ostacolando gli sforzi di taglio delle emissioni, ma dalle sue dichiarazioni sembra consapevole delle cose da fare in questo settore.

È vero, però, che per il governo guidato da Matteo Renzi l’ambiente non sembra un tema centrale. Anzi, al presidente del consiglio non interessa molto il tema, se non (un pochino) sul versante della tutela del paesaggio e della natura, dal punto di vista del contenimento del rischio idrogeologico. Anche se bisogna dare al governo il merito di non aver ascoltato l’opposizione di Confindustria alla legge contro i reati ambientali, e di averla sostenuta fino all’approvazione.

Per il resto il governo Renzi non si è certo distinto per impegno sui temi energetici e ambientali. Le strategie non sono state mai decise al ministero dell’ambiente, ma al ministero dello sviluppo economico.

E così sono stati tagliati i sussidi alle rinnovabili, ottenendo risparmi modestissimi, ma mettendo in fuga gli investitori per la retroattività della misura; si è concesso il via libera alle trivellazioni petrolifere, e si studiano ulteriori disincentivi e ostacoli alle tecnologie più innovative, come il minieolico, la geotermia a bassa entalpia, l’eolico offshore e il solare termodinamico.

Tuttavia arriveranno ancora soldi per la riconversione energetica degli zuccherifici e per l’incenerimento dei rifiuti. Nulla o quasi è stato fatto per la bonifica dei siti industriali. Nulla per la diffusione di mezzi di trasporto meno inquinanti. Poco è stato fatto – anche se qualche segnale c’è – per favorire la riconversione energetica degli edifici.

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