21 febbraio 2011 09:42

Slavoj Žižek, The Guardian, Gran Bretagna

Gli occidentali chiedono una transizione “nel rispetto delle leggi”, come se Mubarak avesse avuto a cuore i diritti civili.

Nel Conflitto delle facoltà, scritto nel 1798, Immanuel Kant ha affrontato una questione semplice ma al tempo stesso difficile: esiste un vero progresso nella storia, intendendo un progresso etico nella libertà e non semplicemente uno sviluppo materiale? Kant ammetteva che la storia è confusa e non offre risposte evidenti: pensate al ventesimo secolo, che ha portato un livello di democrazia e di benessere senza precedenti, ma anche l’Olocausto e i gulag. Eppure, concluse il filosofo tedesco, anche se non ci sono prove certe, alcuni segni indicano che il progresso è possibile.

Kant interpretò la rivoluzione francese come uno dei segni che indicavano la possibilità della libertà: quello che fino ad allora sembrava impensabile era successo, un intero popolo affermava con coraggio la libertà e l’uguaglianza. Per Kant ancora più importante della realtà, spesso sanguinosa, di ciò che succedeva sulle strade di Parigi era l’entusiasmo che gli eventi francesi suscitavano nei simpatizzanti di tutta Europa (ma anche di Haiti!): “La rivoluzione di un popolo di ricca spiritualità può riuscire o fallire, può accumulare miseria e crudeltà, ma trova negli spiriti di tutti gli spettatori una partecipazione e un’aspirazione che rasenta l’entusiasmo, anche se la sua manifestazione non era priva di pericoli, e che può essere causata solo da una disposizione morale insita nel genere umano”.

Queste parole non si adattano perfettamente anche alla rivolta egiziana? La rivoluzione francese per Kant era un segno della storia nella tripla accezione di signum rememorativum, demonstrativum, prognosticum. La rivolta egiziana è anche un segno in cui riecheggia la memoria di un lungo passato di oppressione autoritaria e delle lotte per sovvertirla, un evento che dimostra adesso la possibilità di un cambiamento, una speranza di traguardi futuri. Tutto lo scetticismo esibito a porte chiuse perfino da molti progressisti si è rivelato sbagliato.

L’eterna idea di libertà

In primo luogo, non si può non notare il carattere “miracoloso” degli avvenimenti egiziani: è successo qualcosa che pochi avevano previsto e che ha smentito le opinioni degli esperti, come se la rivolta non avesse semplicemente cause sociali ma fosse il risultato dell’intervento di un ente esterno nella storia, l’ente che possiamo chiamare, platonicamente, l’eterna idea di libertà, giustizia e dignità.

In secondo luogo, la rivolta è stata universale: tutti noi, in qualunque posto del mondo, abbiamo potuto identificarci con la ribellione, capire di cosa si trattava, senza nessun bisogno di un’analisi culturale delle peculiarità della società egiziana.

A differenza della rivoluzione iraniana di Khomeini (dove la sinistra doveva contrabbandare il suo messaggio nel contesto islamista dominante), qui il contesto è chiaramente quello di un universale appello laico alla libertà e alla giustizia, tanto che anche i Fratelli musulmani hanno dovuto adottare questo linguaggio di rivendicazioni secolari. Il momento più emozionante è stato quando musulmani e copti si sono uniti in preghiera in piazza Tahrir gridando: “Noi siamo uniti!”, dando così la migliore risposta alla violenza religiosa settaria.

Terzo: la violenza dei dimostranti era puramente simbolica, un atto di disobbedienza civile radicale e collettiva. Hanno sospeso l’autorità dello stato: non era solo una liberazione interiore, ma un gesto sociale che rompeva le catene della servitude volontaire. La violenza fisica è stata commessa dagli scagnozzi prezzolati di Mubarak che sono entrati in piazza Tahrir a cavallo e sui cammelli e hanno aggredito la folla: i dimostranti non hanno fatto altro che difendersi.

Quarto: per quanto combattivo, quello dei manifestanti non era un messaggio di morte. La loro richiesta era che Mubarak se ne andasse, che lasciasse il governo e il pae­se aprendo la strada alla libertà dell’Egitto, una libertà da cui nessuno è escluso: lo slogan gridato dai manifestanti all’esercito e perfino all’odiata polizia non era “morte a voi!”, ma “siamo fratelli, unitevi a noi!”.

Quest’ultimo elemento distingue chiaramente un movimento emancipatore dal populismo di destra: anche se una mobilitazione di destra proclama l’unità organica del popolo, questa unità è sostenuta dall’appello a sterminare il nemico designato (ebrei, traditori, eccetera).

Dissoluzione

Quando un regime autoritario si avvicina alla crisi finale, la sua dissoluzione, di regola, segue due fasi. Prima del vero e proprio crollo, si verifica una misteriosa rottura: tutt’a un tratto la gente si rende conto che il gioco è finito, semplicemente non ha più paura. Non solo il regime perde ogni legittimità, ma il suo stesso esercizio del potere è percepito come un’impotente reazione di panico.

In una scena tipica dei cartoni animati, un personaggio raggiunge un precipizio ma continua a camminare, come se avesse ancora la terra sotto i piedi. Comincia a cadere solo quando abbassa gli occhi e vede l’abisso. Quando perde la sua autorità, è come se il regime fosse sopra il precipizio: per farlo cadere, bisogna solo ricordargli di guardare in basso.

In Shah-in-shah, il suo libro sulla rivoluzione di Khomeini, Ryszard Kapuscinski individua il momento esatto di questa rottura: a un incrocio di Teheran un dimostrante si rifiutò di ubbidire a un poliziotto che gli ordinava di spostarsi, e il poliziotto imbarazzato si limitò ad andarsene. Nel giro di un paio d’ore l’intera Teheran sapeva di questo episodio, e anche se da settimane si combatteva nelle strade, tutti in qualche modo capirono che il gioco era finito.

In Egitto è successo qualcosa di simile. Il lungo braccio di ferro andato in scena al Cairo non è stato un conflitto tra visioni diverse, ma tra un desiderio di libertà e un cieco attaccamento al potere che usava tutti i mezzi possibili – terrore, fame, semplice stanchezza, concessioni tattiche – per schiacciarlo.

Le folle del Cairo e di Alessandria non volevano semplicemente che il governo ascoltasse le loro richieste, perché negavano la sua stessa legittimità. E ora vogliono ricostruire lo stato. Mubarak l’ha capito molto meglio di Obama: non c’era spazio per il compromesso, proprio come non ce n’era al momento della sfida ai regimi comunisti alla fine degli anni ottanta.

Uno dei paradossi più crudeli è la preoccupazione occidentale che la transizione avvenga “nel rispetto delle leggi”, come se l’Egitto fino a oggi avesse rispettato lo stato di diritto.

Mubarak ha mantenuto l’intero paese in una condizione d’immobilità, soffocando la vita politica, perciò è profondamente significativo che tante persone sulle strade del Cairo sostenessero di sentirsi vive per la prima volta. È fondamentale che questa sensazione di “essere vivi” non sia sepolta da una cinica realpolitik nei prossimi negoziati.

*Traduzione di Gigi Cavallo.

Internazionale, numero 885, 18 febbraio 2011*

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