21 luglio 2015 17:55

Due suicidi in 24 ore sono un trauma che neanche Regina Coeli, una delle più antiche istituzioni laiche della capitale (“ A via de la Lungara ce sta ‘n gradino/chi nun salisce quelo nun è romano”, recita lo stornello popolare), può assorbire senza battere ciglio. Dall’inizio dell’anno sono già 24 i suicidi in Italia, 869 negli ultimi quindici anni, quasi sessanta all’anno. In rapporto alla popolazione detenuta, in carcere ci si suicida diciassette-diciotto volte più che nella società esterna.

Inevitabile, nell’immediatezza dei fatti, l’analisi delle circostanze, la ricerca di responsabilità: il trentaduenne arrestato per la rapina e la morte del gioielliere di Prati era stato sentito dallo psicologo? Era stato segnalato per il rischio suicidario? Era sorvegliato a dovere? E il giovanissimo (diciotto anni!) che ne ha seguito l’esempio, nella stessa sezione, sotto la vigilanza dello stesso agente di turno, aveva in passato manifestato in qualche modo un analogo intento o è stato indotto dall’eco di quel che è accaduto la notte precedente? Domande tutte legittime e tutte, in qualche modo, superflue davanti al mistero di due morti di propria mano, due morti in cui la classica distinzione tra vittima e carnefice non ha senso, non perché si confondano, ma perché l’uno e l’altro non possono essere qualificati né come vittime né come carnefici della propria azione suicida.

Questa impossibilità di distinguere vittima e carnefice, di imputare a qualcuno il male di cui qualcun altro è vittima innocente, ci consente di riavvicinarci a quella dimensione tragica che la nostra società sembra aver dimenticato o, peggio, rimosso. La rapina e la morte del gioielliere romano era ben salda nel canone del buono e del cattivo, della responsabilità e della pena. La solerzia e l’efficacia delle indagini sembravano aver coronato il quadro con l’arresto di Ludovico Caiazza e la sua probabile condanna per l’uccisione di Giancarlo Nocchia. Poi, però, quell’atto contro se stesso ha mischiato le carte: la vittima non avrà giustizia, a meno che non si accetti che la morte del reo sia un atto di giustizia e che la mano del giudice sia la stessa del carnefice. Il bianco e il nero, il buono e il cattivo, tutta quella rassicurante dicotomia è svanita, lasciandoci soli con quei due morti, ciascuno di per sé incolpevole.

La morte in carcere è tragedia nella tragedia. Inutile cercarne le cause, inutile attribuirne le responsabilità. È il carcere che riproduce dolore e violenza, anche contro se stessi, e non solo tra i detenuti (circa un centinaio sono stati i suicidi dei poliziotti penitenziari negli ultimi dieci anni). La tragedia del carcere è in quella privazione della libertà che riproduce la violenza del reato alimentando la sofferenza che vorrebbe sedare.

Si facciano, dunque, le inchieste, si trovino le falle, si migliorino le procedure e le condizioni di vita, ma non si occulti la dimensione tragica del male e la sua impossibile soluzione nella pena perfetta. Piuttosto si faccia quella piccola parte che si può fare, limitando fin dove possibile la spirale della violenza, rinunciando all’uso simbolico del carcere e ai suoi tragici esiti.

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