01 aprile 2015 15:35

Negli ultimi tempi si è parlato molto della proprietà delle canzoni, dopo la controversa sentenza che ha condannato Pharrell Williams e Robin Thicke a pagare qualcosa come 7,4 milioni di dollari per le somiglianze tra la loro Blurred lines e il brano di Marvin Gaye Got to give it up. Su questo argomento sono già stati scritti molti articoli esaurienti e non ho intenzione di entrare nel merito se non per dire che sono rimasta sorpresa, come tutti, dall’esito del processo. Ma la vicenda mi ha anche fatto riflettere sulla differenza tra il concetto giuridico di proprietà e la sensazione più sfumata che proviamo quando ci chiediamo se le canzoni ci appartengano o no.

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La legge sul diritto d’autore garantisce a noi artisti di guadagnare dei soldi dalle nostre canzoni, e stabilisce i nostri diritti sul materiale che componiamo. Quindi non fraintendetemi: è una legge da cui traggo vantaggio e di cui sono grata. Eppure, in qualche modo, l’idea di possedere una canzone non mi convince fino in fondo. Una volta che l’hai scritta e registrata, e soprattutto se poi ha successo, una canzone ti scivola via dalle mani. Quando la trasmettono tutto il giorno alla radio – ascoltata distrattamente da chi sta facendo altro o religiosamente da chi pensa che racconti la sua storia e dica le cose che non è mai riuscito a dire – una canzone di successo non appartiene a chi l’ha scritta, ma a chi l’ascolta. Uno lascia libere le sue canzoni di andare per il mondo come fa con i suoi figli, sperando che abbiano tutte la stessa fortuna. Il pezzo di successo è il figlio diventato famoso che vola via lontano dalla tua orbita e dal tuo controllo e se ne va in giro spavaldo con una nuova identità tutta sua. È il figlio che manda gli assegni a casa.

È così che vedo Missing degli Everything But The Girl, e forse è per questo che nei suoi confronti ho un atteggiamento meno protettivo di molti suoi fan. C’è voluto un bel po’ di tempo perché quel pezzo raggiungesse la sua ultima incarnazione di successo, un viaggio tortuoso durante il quale ha assunto forme diverse, lasciandomi nel dubbio – alla fine – su quale versione fosse quella vera. E il testo scritto a casa su un taccuino squinternato racconta una storia di fantasia che non mi è mai sembrata molto realistica, ma lo è sembrata a tanti che l’hanno ascoltata.

Mi pare che sia stato Jerry Dammers a dire che un autore non finisce mai le sue canzoni: semplicemente, a un certo punto le abbandona al pubblico. Missing è stata trovata sulla porta di casa da milioni di persone che l’hanno adottata e amata. Una di queste persone è Newtion Matthews, che recentemente l’ha cantata a The Voice su Bbc1.

Matthews ha raccontato quanto sia stata importante per lui in un periodo difficile della sua vita, quando era “un giovane solo e disperato, senza neanche un posto in cui vivere”. Dopodiché, l’ha cantata in versione funky e con un arrangiamento di fiati in stile Mark Ronson, trasformandola in qualcosa di nuovo e di diverso. Al posto della malinconia ci ha messo la determinazione e l’atteggiamento di sfida che forse gli erano serviti per uscire da quel periodo buio. A me sembrava tutto assolutamente giustificato, e sono rimasta stupita di quanti si sono subito affrettati a scrivermi su Twitter che Matthews aveva massacrato quel pezzo senza farsi il minimo scrupolo. Tornando al mio discorso iniziale, può darsi che i fan di quella canzone la sentano più “loro” di quanto io non la senta mia.

Comunque, il povero Matthews è stato eliminato e mandato a casa, a riprova del fatto (era la terza volta che la canzone appariva in una gara, dopo l’edizione italiana di X Factor e una stagione precedente di The Voice) che Missing non è una scelta ovvia. È una canzone difficile da cantare. E non certo per l’estensione vocale (inesistente), ci tengo a precisare, ma per il timbro della voce che alla fine è l’elemento chiave del suo successo, a prescindere dall’arrangiamento.

Nella mia recensione preferita in assoluto (che ho citato anche nel mio Bedsit disco queen), il giornalista James Hunter ha scritto che cantavo quel pezzo “con l’estrema razionalità della sua misura”. Ma questa è una qualità inutile in una gara canora, dove quello che serve è la possibilità di stupire con acuti, improvvisazioni ed effetti speciali. “Questa canzone l’hai fatta tua” è il più grande complimento che possano rivolgerti i giudici. Strano quanto sia difficile farlo per un cantante, quando poi ci riesce ogni ascoltatore.

(Traduzione di Diana Corsini)

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