28 maggio 2015 11:07

Ho appena letto un libro che mi ha fatto innamorare di nuovo del mondo. Non è stata un’impresa facile, perché il libro in questione appartiene a quel genere di narrativa distopica e postapocalittica, da cui di solito mi tengo alla larga. Non faccio nessuna fatica a immaginarmi intrappolata in uno scenario da fine del mondo, e non ho bisogno di essere incoraggiata a fissarmi su come potrebbe essere, così quando m’imbatto in un programma sulla carenza di antibiotici o sull’estinzione della specie umana di solito cambio canale.

Per qualche ragione, però, ho deciso di provare a leggere questo libro – Station eleven di Emily St. John Mandel – perché avevo sentito dire che era più illuminante che deprimente. E infatti lo è. Il romanzo si apre immaginando una spaventosa pandemia – l’influenza “Georgia”, che si diffonde in un lampo uccidendo il 99 per cento della popolazione mondiale in poche settimane – e racconta fin troppo vividamente con quanta rapidità le cose vanno in pezzi quando non c’è più nessuno a tenerle insieme. Ma invece di soffermarsi su questo aspetto, il romanzo fa subito un balzo in avanti di una ventina d’anni: da quel momento in poi, la storia si concentra su alcuni gruppi isolati di sopravvissuti, e in particolare su una compagnia itinerante di attori che recitano Shakespeare in un mondo che è tornato a essere illuminato solo dalle candele e scarsamente popolato.

Ad appassionarmi non è stato l’orrore, ma una nostalgia struggente per quello che in realtà è il nostro attuale presente. Anziché terrorizzarmi, questo libro mi ha ispirato una sorta di nuova e profonda consapevolezza delle cose che do per scontate. Mi sono ritrovata a fissare con gratitudine e meraviglia il mio telefono, il frigorifero, gli interruttori della luce. Ho cominciato a fare caso a ogni sms ed email, a meravigliarmi degli aerei nel cielo.

È stata un’esperienza interessante, perché di segno opposto all’attuale tendenza a criticare il modo in cui viviamo, quell’atteggiamento diffuso del tipo “la vita moderna fa schifo”. C’è chi pensa che siamo schiacciati dalle cose che possediamo, che i nostri beni materiali siano un peso, che i nostri livelli d’attenzione si stiano abbassando pericolosamente e che dovremmo fuggire da tutto questo. Leggo continuamente di persone che vogliono disconnettersi dai social network, o che vorrebbero che i figli passassero più tempo nei boschi in bicicletta invece che seduti a un tavolo a inviare sms.

Anche se lo capisco, e in parte sono d’accordo, ho paura che in mezzo a tanta angoscia si perda la consapevolezza che il motivo per cui siamo diventati così dipendenti da tutte queste cose è che sono straordinarie. A volte possiamo avere la sensazione che ci opprimano, ma ci mancherebbero eccome se non ci fossero. Forse non è un caso che tanti dei nostri adorati gadget esistano in funzione della comunicazione, per consentire alle persone di scambiarsi riflessioni e barzellette.

Poiché in Station eleven è stata l’influenza, e non il riscaldamento globale o la guerra nucleare, a causare la fine della civiltà, questo solleva il lettore dai sensi di colpa. Non è stata la nostra avidità a portarci a questo punto, ma la sfortuna: così, non dobbiamo sentirci folli e voraci se amiamo la modernità.

Possiamo anche preoccuparci se i negozi di elettronica o di calzature somigliano sempre di più a musei dove le merci hanno preso il posto dell’arte, ma quando Clark, nel romanzo, sistema amorevolmente vecchi telefoni e tablet sugli scaffali e li spolvera con cura, mentre raccoglie e cataloga oggetti per il suo museo della civiltà, il suo ci appare pare come un gesto di rispetto e di perdono: la presa di coscienza che amare e apprezzare cose come i laptop e gli aerei non significa che siamo stupidi, significa che sono cose straordinarie.

Il libro è pervaso dalla meraviglia della natura, ma ancora di più dalla meraviglia dell’inventiva umana: da Shakespeare ai fumetti, a tutte le macchine magiche che rendono possibili le nostre vite.

La cosa che manca di più ai personaggi del libro, nell’era postelettrica, è la luce. Quando un lontano bagliore, alla fine, fa pensare alla remota e incerta possibilità di un ritorno alla civiltà, il sentimento è di gioia. Mi sono sentita rinfrancata al pensiero che in realtà la vita moderna è piena di risorse e che, invece di giudicarle fastidiose o di temerle, dovrei imparare a non darle per scontate, ad apprezzarle e rallegrarmene. Cercando di non preoccuparmi troppo dell’influenza.

(Traduzione di Diana Corsini)

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