03 settembre 2015 12:36

Nei confronti della cosiddetta mindfulness – quel tipo di “attenzione consapevole” che si sviluppa attraverso la meditazione – ho sentimenti contrastanti. Avendola sposata entusiasticamente un paio d’anni fa come potenziale rimedio all’ansia, ho storto un po’ il naso quando è diventata un fenomeno di massa. E oggi assisto all’inevitabile contraccolpo. Ultimamente ho letto un’infinità di articoli che la criticano, definendola una versione light – superficiale ed egocentrica – del buddismo: l’ennesimo hobby insulso di una classe media perennemente impegnata a guardarsi l’ombelico.

Un’accusa ricorrente è che, in una cultura già così fortemente anti-intellettuale, l’ultima cosa di cui abbiamo bisogno è un incoraggiamento a “svuotare la mente”. E qualcuno vede con preoccupazione il fatto che la pratica della mindfulness sia adottata nelle aziende o nelle scuole: in quelle mani può diventare uno strumento di controllo che induce passività e acquiescenza nei dipendenti o negli studenti. Un nuovo tipo di anestetico, come il soma del Mondo nuovo di Aldous Huxley.

L’accusa che riguarda lo svuotamento della mente non sta in piedi, perché non è affatto quello che succede. Nella meditazione non ti sbarazzi dei pensieri ma cerchi di osservarli, di capire come vanno e vengono, e come tendiamo a ricadere negli stessi inutili schemi. Meditare è un’esperienza sempre diversa, a volte noiosa e a volte no. A volte la mente rallenta e a volte accelera. I pensieri in forma di parole vengono sostituiti da immagini, che appaiono misteriosamente dal nulla, come i sogni che facciamo poco prima di addormentarci.

E quando poi arrivano i pensieri negativi, non gli urli “state zitti!” (come facevo io un tempo): li registri, e poi ti concentri su qualcosa di fondamentale, di solito il respiro. Potrà anche sembrare una cosa di poco conto a chi ha un carattere pacifico e tranquillo. Ma per chi tende a rimuginare continuamente sul passato o sul futuro può essere un gran sollievo.

Qualsiasi cosa aiuti a rimettere le cose nella giusta prospettiva può aiutarci a sentirci più forti

La meditazione ci renderà più docili? È per questo che sta diventando così popolare? Non saprei. L’ansia e la depressione possono essere condizioni mentali paralizzanti. Qualsiasi cosa aiuti a rimettere le cose nella giusta prospettiva può aiutarci a sentirci più forti.

Tuttavia, capisco i timori di chi pensa che insistere sulla “consapevolezza” possa delegittimare una rabbia giustificata, a livello razionale e sociale, e offrire la risposta sbagliata alla domanda: “È il mondo che deve cambiare, o sono io?”.

Ci ho riflettuto l’altra sera, mentre guardavo What happened, miss Simone?, il documentario di Liz Garbus su Nina Simone. Il film è pieno di straordinarie registrazioni dal vivo, compresa la scena in cui Nina canta I loves you, Porgy nel programma televisivo di Hugh Hefner Playboys’ Penthous, circondata da donne in abito da sera: tra la scenografia patinata e la profonda sofferenza che le si leggeva negli occhi c’è un contrasto stridente.

Per visualizzare questo contenuto, accetta i cookie di tipo marketing.

La cosa che mi ha colpito di più di ogni sua esibizione era la rabbia, legittima e bruciante, che esprimeva. La figlia racconta che le era stato tardivamente diagnosticato un disturbo bipolare. Un elemento che non può essere ignorato. Eppure, quello che emergeva con forza dal film era quanto fosse giustificata la sua rabbia, e come avesse trovato uno sfogo sia nel suo attivismo politico sia nella sua creatività.

Simone aveva cominciato a suonare il pianoforte a quattro anni e sognava di diventare una pianista classica, ma i suoi genitori erano costretti a sedersi in fondo alla sala quando suonava in chiesa, e il Curtis institute of music di Philadelphia respinse la sua domanda di ammissione. Così trovò rifugio nei locali notturni: era una cantante non convenzionale, dotata di una tecnica classica e di uno straordinario talento, ma anche una donna tormentata e piena di risentimento.

Sposando la causa del movimento per i diritti civili, si è battuta al fianco dei suoi leader per poi vederli morire. E tutto questo non ha fatto che alimentare la sua rabbia e la sua creatività, che esplose in canzoni di protesta come Mississippi goddam e To be young, gifted and black.

Per avere espresso tutta questa rabbia, Simone ha pagato un prezzo molto alto, a livello professionale e personale. Ricordo che John Lydon (Johnny Rotten) cantava che “la rabbia è energia”. Per Nina Simone lo era certamente, e questo ci ha dato quelle canzoni, quella voce imperiosa, quegli occhi lampeggianti. Quindi capisco chi pensa che la mindfulness possa smussare gli angoli e indebolire le emozioni e la creatività. Noi pensiamo di cercare la calma, ma è proprio quello che vogliamo?

(Traduzione di Diana Corsini)

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it