19 maggio 2016 15:13

L’altro giorno ero felicemente immersa nel mondo di un romanzo, Whispers through a megaphone di Rachel Elliott, quando sono stata riportata di colpo alla realtà dalla mia apparizione nel libro. Uno dei personaggi sente una ragazza cantare, e poi qualcuno che dice: “‘È Leonora. Canta con la finestra aperta’. ‘È brava, sembra Tracey Thorn’. ‘Sì, è proprio vero’”.

È stato come salire sul palco mentre sei ancora tra il pubblico. Mi era già successo, ma è sempre stupefacente: un po’ come rompere la quarta parete. Smetti di essere uno dei tanti lettori anonimi a cui si rivolge l’autore e diventi – anche se solo per un attimo – un personaggio minore o qualcuno messo lì a rappresentare qualcosa. In questo caso la citazione era lusinghiera, ma il fatto è che non sai mai come ti userà lo scrittore e per rappresentare cosa.

Nel romanzo di David Nicholls Le domande di Brian, ambientato a metà degli anni ottanta, il personaggio principale, Brian – uno studente sfigato, che fallisce sia in amore sia nel quiz televisivo University challenge – sta con una ragazza con cui spera di fare sesso. “Restiamo svegli un’oretta, a bere whisky seduti sul letto uno accanto all’altra, parlando e ascoltando Tapestry e il nuovo album degli Everything but the girl”. Ah, mi sono detta, qui rappresento il tipo di cantante che la gente ascolta quando sta cercando, magari senza successo, di portarsi a letto qualcuno.

Squallore patinato

Un salto in avanti di qualche tempo, e siamo a metà degli anni novanta in Glamorama di Bret Easton Ellis: un libro costruito intorno a una serie di liste di persone e di cose, abiti e musica, che sembrano indicare la vacuità della vita moderna. “Mi precipito da Paul Smith in Bond street, dove compro un elegante impermeabile grigio marina. In sottofondo, Missing degli Everything but the girl”. E poi: “Nella limousine diretta a Charing cross road ascolto Wrong degli Everything but the girl, mentre studio la piccola busta bianca…”. Qui ci usano per rappresentare le band che per un po’ sentiamo dappertutto, e le nostre canzoni sono la colonna sonora dello squallore patinato del romanzo.

Poche persone tra quelle che hanno conosciuto Morrissey sono uscite indenni dalla sua autobiografia (me compresa)

Queste citazioni vanno tutte bene: parlano della musica, non di me. Riconoscersi in un vero personaggio di un romanzo dev’essere ben più scioccante: un rischio che corre chi è sposato con un romanziere, per esempio. Penso a Claire Bloom e Philip Roth. Lei scrive un’autobiografia in cui racconta com’era terribile essere sposata con lui. Allora lui scrive un romanzo in cui racconta com’era terribile essere sposato con una molto simile a lei. I libri come vendetta: una cosa completamente diversa.

Poche persone tra quelle che hanno conosciuto Morrissey sono uscite indenni dalla sua autobiografia (me compresa), primo tra tutti Geoff Travis della Rough Trade Records. Nel libro Travis è stato letteralmente fatto a pezzi, ma sembra che abbia scelto di mantenere un dignitoso silenzio. È difficile, comunque, sapere come regolarsi con le persone reali quando si scrive un’autobiografia.

Nella mia ho scelto di non fare il nome di un personaggio, un ragazzo che mi aveva spezzato il cuore a 18 anni. I vecchi amici si sono scatenati in congetture frenetiche, tutte sbagliate, che dimostravano solo quanta poca attenzione mi prestassero all’epoca. Ho scritto anche della band in cui suonavo da ragazzina, le Marine Girls, e poi ho inviato il capitolo alle altre componenti per avere la loro approvazione. Cosa che ha portato a una nuova esplosione di ostilità e all’interruzione di ogni rapporto, 25 anni dopo la nostra rottura. Bello suonare in una band, eh?

Se dovessimo preoccuparci di queste cose, nessuno scriverebbe più niente. Per fortuna, non se n’è preoccupato John Niven, che nel suo scabroso romanzo sullo show-biz, Kill your friends, mescola mostri immaginari come il terribile talent scout Steven Stelfox, e persone reali: non solo celebrità (Goldie, le Spice Girls), ma anche discografici (Ferdy Unger-Hamilton, Rob Stringer) molto conosciuti nell’ambiente musicale e probabilmente elettrizzati di essere riusciti a finire in un libro.

Ultimamente, John me l’ha confermato: “Alla fine ho avuto più problemi con chi non ho citato nel libro che con quelli che ho citato. Pensa quanto può essere egocentrica l’industria musicale. Mi hanno raccontato che un discografico ha comprato trenta copie del mio libro per firmarle e regalarle alle sue band dicendo: ‘Questo libro parla di me’. Crei il diavolo e la gente fa la fila per dire: ‘Sì, quello sono io’”.

In altre parole, come sospettavo, c’è solo una cosa peggiore di un libro in cui si parla di te.

(Traduzione di Diana Corsini)

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it