14 giugno 2016 15:00

Ho fatto una passeggiata sotto la pioggia l’altro giorno, imbacuccata nel mio impermeabile e decisa a godermela, dato che avevo appena letto il bellissimo libro di Melissa Harrison Rain: four walks in english weather, che descrive amorevolmente la gioia sensuale del picchiettio delle gocce di pioggia sulle foglie, la luminosa freschezza della vegetazione bagnata e il “petricore” di città, cioè l’odore che si sprigiona dai marciapiedi asciutti quando piove. Ho cercato di essere superiore e ignorare il supplizio dei pantaloni bagnati, dei capelli crespi e degli occhiali appannati, e ho vissuto un’esperienza straordinaria.

Uno dei grandi piaceri di leggere libri sulla natura è che impari sempre qualcosa. Fin dalle prime pagine di Rain, sono rimasta impressionata dalla quantità di dati su felci, formiche, talpe e vermi. Quando Harrison ammette, quasi scusandosi, di non essere sicura di poter identificare con assoluta precisione una coltura o un certo legume, ho pensato: “Onestamente, non c’è bisogno che si scusi con me che a malapena distinguo un falco da un cane pastore”. Per me sono libri di fantascienza, pieni d’informazioni incredibili a proposito del pianeta su cui vivo, ma di cui so ben poco.

Istinto e nostalgia

Sono anche libri di grande successo, in questo momento. E leggendo Edgelands di Paul Farley e Michael Symmons, mi sono imbattuta in una teoria che potrebbe spiegare il perché. Gli autori introducono il concetto di “distacco progressivo”, che nella genomica si riferisce alla sorprendente scoperta che le forme di vita più complesse hanno genomi più corti di quelle semplici. L’idea è che gli errori evolutivi disattivano alcune parti del genoma, producendo una perdita di comportamenti radicati e istintivi. Liberate dal bisogno di costruire lo stesso nido nello stesso periodo dell’anno, per esempio, le forme di vita superiori (come gli esseri umani) possono scegliere che cosa fare, dando vita alla civiltà.

Ma il prezzo da pagare è la perdita di quel comportamento istintivo, che lascia il posto a una nostalgia. E lo scrittore si chiede: “C’è da stupirsi, dunque, se ci sdilinquiamo di fronte a colline, boschi, fiumi e brughiere? È questo che spiega il nostro sogno ricorrente di un ritorno alla vita selvaggia e alla natura?”.

Gli amanti della natura spesso cercano la solitudine. A me invece piace avere sempre gente intorno

Da quando faccio parte della giuria dei Forward prizes for poetry leggo molta poesia, e posso confermare che ancora oggi è tutto uno sdilinquirsi per il mondo naturale: tutti quei fiumi, gufi e (l’animale preferito del momento) volpi. Un buon libro sulla natura deve avere uno stile asciutto e informativo, o finirà per somigliare alla rubrica di Boot nel romanzo di Evelyn Waugh L’inviato speciale: “Con passo felpato, l’arvicola scivola silenziosa nello sciabordio della palude…”, eccetera. A quel punto preferisco tornare alle poesie che parlano di esseri umani, dove si vive e si muore, si litiga, si parla, si comunica: si fanno cose umane, insomma.

La verità è che amo la gente. Gli amanti della natura spesso cercano la solitudine, sembra quasi che vogliano fuggire lontano dagli altri esseri umani. A me, invece, piace avere sempre persone intorno. Mi piace guardare fuori, la sera, e vedere le finestre illuminate. Non mi danno fastidio le sirene o gli allarmi antifurto: mi ricordano che non sono sola. Nel nostro giardino, che dà su una strada piuttosto trafficata, la colonna sonora è il rumore costante del traffico, insieme al cinguettio del merlo che vola sopra di noi. Una combinazione azzeccata.

Il senso della storia

Dico “merlo”, ma è molto probabile che sia un fringuello. O una cinciarella. Come faccio a saperlo? So riconoscere un cardellino, grazie all’immagine che appare sulla copertina del romanzo di Donna Tartt, ma ho preso una bella cantonata l’altro giorno quando, sbagliando a consultare un atlante ornitologico, ho scambiato una passera scopaiola (il più comune degli uccelli dei nostri giardini) per un raro esemplare di parula.

Ho imparato che un pulcino di merlo è grande come i genitori e che li segue tutto il giorno zampettando sul prato, chiedendo cibo. E loro, quei gonzi, glielo danno. Mentre scavano senza sosta cercando vermi per quel bulletto viziato, sembrano esausti.

Penso a quelle donne che allattano bambini giganteschi. Ma poi, quando vedo il pulcino che sguazza nella vaschetta dell’acqua, non per lavarsi o rinfrescarsi, ma solo per divertirsi urlando “Guardami, mamma! Sto remando!”, ricordo che una delle teorie sul canto degli uccelli è che sia in buona parte un’espressione di gioia. E allora mi rendo conto che questa storia della natura potrebbe avere un senso, dopo tutto.

(Traduzione di Diana Corsini)

Questo articolo è uscito sul settimanale britannico New Statesman

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