12 dicembre 2016 16:32

Una volta ho detto con leggerezza che detestavo i Beatles, e ogni tanto c’è ancora qualcuno che me lo ricorda. Era un commento buttato lì, divertente all’epoca e forse neppure tanto, ma con un fondo di verità: sono insieme troppo giovane e troppo vecchia per apprezzare veramente i Beatles.

Troppo giovane perché ero appena nata all’epoca dei loro primi successi. Quando sono diventata adolescente è arrivato il punk, che li considerava cimeli del vecchio establishment del rock (“No Elvis, Beatles or the Rolling Stones/In 1977”, cantavano i Clash). Ci sembrava irriverente e divertente rifiutarli, come ridere degli uomini d’affari con la bombetta o mostrare il dito medio ai benpensanti delle periferie.

Ma sono anche troppo vecchia per amare i Beatles. Quelli più giovani di me hanno un atteggiamento diverso nei confronti del passato del rock, e dopo la morte del punk hanno accuratamente rimesso sui loro piedistalli tutte le icone, spolverandole e costruendoci intorno delle piccole teche. A volte li trovo un po’ troppo reverenziali, ma forse un po’ di ragione ce l’hanno. Il punk era per molti versi sciocco e vuoto, e sono la prima a riconoscere gli errori della mia adolescenza.

Così, eccomi qui a nominare i Beatles in due rubriche di seguito, come se fossero importanti o che so io. Questa volta perché sono andata a vedere il documentario Eight days a week: the touring years, che racconta la storia della band tra il 1962 e il 1966 attraverso filmati dal vivo.

Prima di tutto il film racconta una band che impara a fare la band

Dopo il Cavern club di Liverpool, con le serate più allegre e scatenate, arrivano all’ABC di Manchester nel 1963. Una platea più grande, stavolta, ma date un’occhiata alle attrezzature sul palco: niente microfoni per la batteria, niente monitor, pochi minuscoli amplificatori che da soli devono riempire tutta la sala. È impossibile che sentissero qualcosa, eppure le loro voci erano sempre intonate. Merito di anni di serate e di pratica, la memoria automatica di chi canta in modo puramente istintivo.

Nel 1965 sono costretti a suonare in enormi stadi negli Stati Uniti, perché le autorità temevano disordini fuori dei locali più piccoli che avrebbero lasciato migliaia di fan per la strada. C’è il famoso concerto allo Shea stadium nel 1966 e poi, troppo presto, il loro ultimo concerto al Candlestick park di San Francisco.

Prima di tutto il film racconta una band che impara a fare la band. Essendo i primi a sperimentare un successo di quel tipo, i Beatles inventano strada facendo. All’inizio sono tutta semplicità e gioia, un tutt’uno con il pubblico. Scuotono teste e capelli, urlando nello stesso microfono i loro “Ohhh”, a cui fanno eco le ragazze del pubblico. Le loro conferenze stampa sono ancora spontanee e immediate. Non c’erano regole. “Non si è più vista quell’innocenza”, penso guardando i filmati di repertorio.

Nessun divertimento
Perché la traiettoria del film è tragica. Vedi tutto il divertimento esaurirsi in quattro brevi anni, svanito dalle loro vite come la bontà da una pietanza troppo cotta. Le domande alle conferenze stampa diventano stupide e provocatorie, e i ragazzi cominciano a rispondere in modo aggressivo. La battuta sul fatto di essere più famosi di Gesù gli si ritorce contro, i loro dischi vengono bruciati e la paura li costringe ad assumere atteggiamenti difensivi. I concerti diventano sempre più grandi, ma non meglio organizzati. Ancora non lo sa nessuno, come si fa.

Allo Shea stadium finalmente fa la sua comparsa un piccolo microfono sospeso sopra la batteria, ma manca ancora un vero servizio d’ordine e non ci sono tutte le diavolerie di quella che sarebbe diventata l’esperienza rock. I ragazzi della band arrivano sul palco attraversando di corsa il campo da gioco. E alla fine del concerto vengono portati via infagottati e nascosti dentro un cellulare della polizia senza finestrini. È una scena molto triste. “Nessun divertimento”, come avrebbero cantato i Sex Pistols pochi anni dopo.

E allora mi viene in mente una cosa: i Beatles sono stati i canarini nella miniera. Quanto poteva resistere una band? Che cosa poteva distruggerla? Usciti di scena loro, gli altri hanno imparato in fretta come si faceva. Volevano di più. Gli anni settanta hanno trasformato il rock in uno stile di vita da sogno – i soldi, gli aerei, le limousine, i concerti negli stadi con un vero servizio di sicurezza e il lusso sfrenato del dietro le quinte – che i Beatles si sono persi perché erano arrivati troppo presto. Perché erano arrivati per primi. Basta questo per farmeli amare.

(Traduzione di Diana Corsini)

Questo articolo è uscito sul settimanale britannico New Statesman.

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