25 gennaio 2017 19:09

Uno dei cliché sulla vita delle celebrità è che si conoscano tutte tra loro. Negli anni ottanta, quando eravamo moderatamente famosi, Ben e io incrociavamo spesso altre persone note e il riconoscimento reciproco creava una specie di familiarità, anche se non proprio amicizia. C’era anche un elemento di casualità, in questo. Alcune persone era molto difficile incontrarle, altre invece sembravano apparire con una certa regolarità.

Nel 1987, la nostra auto era una Austin Princess: sedili in pelle e cruscotto in legno di noce. Per molti versi rifletteva quelle che la gente considerava le qualità della nostra band: senza pretese, un po’ strana e un po’ vintage. Ce l’avevamo da un annetto, ma Ben stava perdendo la pazienza. Aveva l’abitudine di lasciarci a piedi nei momenti più scomodi: per esempio, in cima a quei lunghi e ripidi tornanti che incontri attraversando l’Italia in auto, cosa che avevamo appena fatto durante una vacanza.

Quell’auto era una tale novità, lì, che attraeva una piccola folla ogni volta che parcheggiavamo. Le persone si raccoglievano intorno all’auto, annuendo in segno di apprezzamento e accarezzando il cofano. Avendo appena incassato un paio di assegni di diritti d’autore, Ben stava pensando di cambiare completamente stile: un’auto più appariscente e rock’n’roll.

“Voglio comprare una vecchia Mercedes 300 SL”, mi disse.

“E qual è?”.

“Te la indico la prossima volta che ne vedo una”.

Gli estremi opposti del pop
Un giorno giravamo per Londra con la nostra Princess, e arrivando a Sloane square Ben mi urlò: “Eccone una, guarda, nella corsia di sinistra!”. Mi girai a guardare quella visione scintillante di acciaio cromato che ci passava accanto scivolando via senza sforzo, e in quello stesso momento il guidatore lanciò un’occhiata alla nostra buffa auto. I nostri sguardi si incrociarono, poi la Mercedes filò via rombando. Era George Michael.

“Ma quello era George Michael!”, dicemmo insieme. “E guidava la macchina che vogliamo noi!”.

Avevamo sempre avuto un debole per George Michael, anche se occupavamo gli estremi opposti del pop. Una volta, durante una trasmissione televisiva aveva parlato bene del nostro primo album, e sapevo che gli era piaciuto il mio primo singolo da solista, Plain sailing. Con Ben avevamo partecipato a un concerto di beneficenza per i minatori, in cui si erano esibiti anche gli Wham!, un po’ fuori posto con le loro canottiere, le loro abbronzature e i loro ciuffi biondi. Qualcuno aveva storto il naso perché cantavano in playback. Ma io ricordo di aver pensato: “Tanto di cappello per essere venuti qui”. La loro presenza dimostrava che essere attivi politicamente, o anche solo sensibili, non era appannaggio esclusivo dei gruppi indie.

Un paio di settimane dopo eravamo ancora in giro con la Princess, quando, indovinate un po’ chi si ferma accanto a noi nel traffico? Di nuovo George. Abbassò il finestrino e noi facemmo altrettanto. Fu molto simpatico e, parlando ad alta voce per farsi sentire dalla sua auto, ci disse che sì, ci aveva riconosciuto l’altro giorno a Sloane square. Poi si lamentò perché Bbc Radio 1 non trasmetteva il suo nuovo singolo “perché era troppo esplicito”. “Come si intitola?”, chiese Ben. “I want your sex”!, urlò lui, e si allontanò rombando, lasciandoci lì a ridere.

Di nuovo George
Avevamo deciso, ormai. Così andammo all’autosalone, tirammo fuori la grana, comprammo l’auto da pop star e passammo le settimane successive a scarrozzare i nostri genitori con la cappotta abbassata. Era incredibile: perfino io dovevo ammettere che era elettrizzante guidare un’automobile del genere.

Passò un po’ di tempo. Eravamo felici del nostro nuovo acquisto glamour, quando un giorno percorrevamo la M1 e, sì, avete indovinato: nello specchietto retrovisore Ben vide sopraggiungere quella sagoma familiare. “Accidenti, è di nuovo George Michael. Secondo me ci sta pedinando”.

George si immise nella corsia accanto alla nostra, rallentando per affiancarci. Abbassammo i finestrini. Lui squadrò la nostra auto da cima a fondo, sfoderò il suo sorriso smagliante e disse: “Così va meglio”. Dopodiché rombò via per l’ultima volta.

Ciao, George. Eri simpatico, generoso e gentile ed eri una brava pop star.

(Traduzione di Diana Corsini)

Questo articolo è uscito sul settimanale britannico New Statesman.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it