23 marzo 2017 17:34

C’è una canzone nell’ultimo album di Ben, Fever dream, che racconta la storia degli anni in cui faceva il dj al club Plastic People: “Down on Curtain road / I went looking for a little experience / Among the mohawks and the plastic glasses / A basement and condensation” (Giù a Curtain road / sono andato in cerca di nuove esperienze / tra tagli alla moicana e bicchieri di plastica / seminterrato e condensa). E in questo fine settimana mi torna spesso in mente, perché sono proprio a Curtain road, a Shoreditch, per incidere i demo dei miei nuovi pezzi e in cerca di nuove esperienze.

Siccome non vado più in tournée ci sono lunghe pause tra un’incisione e l’altra, e in quelle pause non canto e non suono molto. Così ogni volta che ricomincio mi stupisco di quanto sia facile e difficile allo stesso tempo. Scivolo in una comoda routine, ma poi salta sempre fuori qualche ostacolo imprevisto.

E non è che io sia impreparata, perché mi esercito da settimane e sono pronta. Ho tagliato le unghie molto corte e ho suonato la chitarra per farmi ricrescere i calli sui polpastrelli della mano sinistra. E poi mi sono esercitata a cantare, cioè a respirare.

Qualcosa di misterioso
Farò anche un servizio fotografico, quindi ho una lista di cose da mettere in valigia per il primo giorno: gonna nera, maglietta a righe, giubbotto Harrington, ceretta, bigodini, mollette per maglietta, pasta fredda, barrette di cereali, banane, chitarra, cavo elettrico, portaplettri, testi. Quindi nessuno può dire che non sia preparata. Eppure ogni volta è la stessa storia e arriva quel momento terribile in cui devi cantare i pezzi davanti a qualcuno per la prima volta, e scopri che quello che a casa sembrava fantastico ora fa decisamente pena.

Per quante volte tu possa averlo fatto, c’è sempre qualcosa di misterioso in questo processo. Come nascono le canzoni, e come dovrebbero essere? Ascolto la musica degli altri, anche se non tanto come una volta, ma neanche questo mi aiuta granché a dare una risposta a queste domande. Non sempre sono sicura di sapere quale cantante vorrei essere o come vorrei che fossero le mie canzoni. Non sono sicura di sapere quale sia il mio posto. Forse non lo sono mai stata.

Alla fine i pezzi non sono mai come li avevo pensati, il che è al tempo stesso un sollievo e una delusione

Mi chiedo di nuovo come siano nate le mie prime canzoni. Ascoltavo Patti Smith e ho formato un gruppo punk, le Marine Girls. Mi piacevano i Clash ma poi ho inciso A distant shore, che suonava come un disco della cantante folk Bridget St John, che non solo non avevo mai ascoltato ma di cui ignoravo perfino l’esistenza. Allora come funzionano le influenze?

Nella fase dei demo parlo molto del sound dei pezzi: com’è e come dovrebbe essere. Mi servono modelli, riferimenti, punti di partenza, qualcosa che mi dia un’idea del ritmo e del carattere. Faccio discorsi del tipo: questo qui è un pezzo disco, questa è una canzone folk, questo dovrebbe avere lo stesso ritmo di X, questo è come Y, questo dovrebbe somigliare di più a Z. Eppure, alla fine i pezzi non sono mai come li avevo pensati, il che è al tempo stesso un sollievo e una delusione. “È così che li volevo?”.

Il momento migliore di questo fine settimana è stato quando, riferendosi a un pezzo a cui stavamo lavorando, il mio produttore Ewan Pearson ha detto: “Dobbiamo fare in modo che non sembrino i Sigue Sigue Sputnik”. Sarebbe la prima volta.

Certe fortunate coincidenze
A parte questo, le giornate scorrono senza grandi sorprese. Uno dei pezzi va cantato a bassa voce, e il microfono dev’essere fissato molto in alto: tra una registrazione e l’altra sento il fruscio dei miei vestiti e il tintinnio della collana. Mi sembra quasi di sentire crescere i miei capelli. Uno dei tasti del pianoforte si inceppa e scatta, e ogni volta che suono un la si sente un leggero “toc”, come il rumore di una matita che cade piano per terra. Non possiamo aggiustarlo, quindi cerco di evitare quel la ogni volta che suono l’accordo, e scopro un accordo rivolto migliore dell’originale. Anche certe fortunate coincidenze fanno la loro parte.

A mezzogiorno di lunedì mi viene voglia di twittare “Dio, che bello incidere un disco”. E alle sei del pomeriggio: “Dio, che fatica incidere un disco!”. Le canzoni mi sembrano belle, poi orrende; mi sento brava, poi un’impostora senza speranza. Nella mia testa sento qualcosa di completamente nuovo – la musica non è mai stata così magica e non ho mai cantato così bene – ma poi mi riascolto in cuffia e sono io. Sono ancora io.

(Traduzione di Diana Corsini)

Questo articolo è uscito sul settimanale britannico New Statesman.

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