18 marzo 2016 19:40

Una volta Tomotada Iwakura, grande filologo e italianista giapponese di cui abbiamo pianto la morte a febbraio, ha spiegato quanto conta nell’immensa area dell’ideogramma l’apprendimento della scrittura. È un esercizio lungo e complicato: il singolo carattere ha fra uno e trenta tratti che lo compongono e una persona di buona cultura deve conoscere, saper distinguere ed eseguire circa cinquemila caratteri diversi. I più colti vanno oltre i seimila degli oltre sessantamila che sono a lemma in un grande dizionario cinese come “Il mare delle parole”.

Imparando a scrivere si assimilano lingua e cultura e ci si forma a un’eleganza fatta di raffinata precisione. Due lacche identiche per l’occhio occidentale, all’occhio del cinese o del giapponese colto rivelano differenze impercettibili e appaiono l’una vile paccottiglia, l’altra un fine manufatto. Là dunque non è messo in dubbio l’apprendimento della scrittura a mano. La democratica scrittura alfabetica che le lingue occidentali hanno ereditato dai fenici, attraverso greci e romani, è molto più semplice.

Tuttavia apprendere la scrittura manuale dell’alfabeto è fondamentale per lo sviluppo cerebrale, cognitivo e linguistico dei bambini, come spiegano in Die Zeit (17 febbraio) educatori, psicologi e neuroscienziati. Generalizzare l’uso della videoscrittura dall’infanzia per evitare il digital divide è ragionevole, ma la nuova tecnologia digitale deve affiancare e non cancellare l’antica preziosa tecnica scrittoria.

Questa rubrica è stata pubblicata il 11 marzo 2016 a pagina 99 di Internazionale, con il titolo “Il cervello nella mano”. Compra questo numero | Abbonati

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