27 marzo 2017 13:35

Ho cominciato a giocare a calcio con la Cfr Craiova, la squadra dei ferrovieri della città. Essendo nato a dicembre, ed essendo un po’ piccolino per la mia età, ho dovuto faticare a convincere l’allenatore che sarei stato in grado di combinare qualcosa. Non so perché lo chiamassero allenatore, visto che il suo talento principale era l’alcolismo e non il calcio. E comunque, se pure avessi voluto ispirarmi a qualcuno in quel campo, mio padre sarebbe stato una guida con una marcia in più.

L’allenatore ci faceva entrare in campo a seconda dell’altezza e ci guardava inebetito da bordo campo con una bottiglia di rum in mano. Ci ha allenati per cinque mesi, durante la primavera e l’estate di quell’anno. Sotto i pantaloncini, corti e larghi, non portava le mutande. Oggi posso dire che è stato uno dei pochi uomini che ho conosciuto un po’ più intimamente di quanto desiderassi.

Nei primi giorni di settembre ho giocato una partita contro l’Universitatea Craiova, la principale squadra della città. Quel giorno eravamo dodici in tutto, così sono stato schierato dal primo minuto. Mi sono accorto che era una partita importante perché gli avversari avevano un equipaggiamento da paura e già dal riscaldamento provavano una serie di schemi. Sono stato fortunato e ho giocato molto bene. È così che sono stato preso dall’Universitatea Craiova.

Una scelta difficile
Sono stato per quasi due anni in squadra con calciatori famosi come Dumitru Mitriţa, ho sgranato gli occhi davanti alle giocate di Gică Popescu, e sono rimasto colpito dal talento di Ovidiu Stîngă, che allora era un ragazzino. Sul campo me la sono cavata abbastanza bene, finché mia madre si è accorta che il calcio e la scuola non andavano troppo d’accordo. E visto che a quanto pare nella nostra cittadina, Budrea, tutti avevano lauree e dottorati, in famiglia è stata presa una decisione all’unanimità: niente calcio.

Mia madre è stata la prima ragazza rom del paese ad arrivare alle superiori. Ha fatto la scuola per infermieri, in cui allora era difficile entrare. Nella mia famiglia nessuno ha più ripetuto la stessa performance. Mio fratello non ha mai amato molto i libri e mia sorella ha avuto la sfortuna di scegliere la facoltà di medicina, dove ha tentato di entrare per tre anni di fila, senza successo, per poi decidere di sposarsi per scappare da mio padre.

Mia madre aveva invece deciso che io dovevo arrivare all’università. Non conosco nessuno più testardo di lei. Mi ha fatto smettere con il calcio perché per l’esame di ammissione al liceo dovevo imparare a memoria le schede critiche sulla letteratura romena, scritte dalla mia insegnante di romeno, una signora rispettabile, divorziata e un po’ isterica. Erano in una lingua pomposa e piena di metafore cretine. Ho capito subito che non le avrei memorizzate, così mi sono massacrato di grammatica e matematica e ho deciso che, nel tema di critica letteraria, avrei scritto quello che mi passava per la testa. Visto quanto sono sgrammaticato e quanta poca matematica conosco è chiaro che ho perso solo tempo.

Per la prima volta mi sono accorto di essere un po’ più scuro degli altri. E devo dire che la cosa mi è stata anche d’aiuto

All’esame mi è andata bene: mi è capitato un testo da commentare così facile che alla fine sono arrivato tra i primi trenta in graduatoria. Mamma è stata molto fiera di me. E anche mio padre ha avuto la sua soddisfazione: aveva trovato un motivo in più per bere. Al liceo mi sono trovato bene, con qualche eccezione.

Durante le vacanze precedenti all’inizio del primo anno, il lavoro agricolo – che allora era obbligatorio per tutti gli studenti – è stato terribile. Ho lavorato come un pazzo, raccogliendo cetrioli e cipolle con un caldo asfissiante. Il nostro sorvegliante era il professore di elettronica: si chiamava Cicerone ed era un idiota razzista che si divertiva a tormentare in modo sadico tutti quelli che sembravano rom. In realtà come docente si è dimostrato capace. Ma alla fine ho odiato sia lui sia la sua materia.

A Urzicuţa, dove facevamo “pratica agricola”, si mangiava verza a colazione, pranzo e cena. La mattina e la sera era servita con una bevanda a base di zucchero caramellato, mentre a mezzogiorno era la base della minestra. Vivevamo in baracche con letti a castello, piene di scarafaggi. Come succede in ogni gruppo di ragazzi, tra noi c’erano diversi cretini convinti di essere molto spiritosi: a volte capitava di svegliarsi con il dentifricio o la marmellata spalmati sul viso e sul cuscino. È stato lì che per la prima volta mi sono accorto di essere un po’ più scuro degli altri. E devo dire che la cosa mi è stata anche d’aiuto. Tenevo in bella vista un coltello da cucina che, nonostante la paura di tagliarmi, avevo portato da casa per aprire le conserve. Nessuno si è permesso di fare scherzi idioti con me.

È stato sempre a Urzicuţa che ho visto per la prima volta degli uomini ubriachi portati a casa dalle mogli con la carriola. Mi è sembrato molto divertente e ho pensato che una carriola non sarebbe stata un investimento stupido, considerata la passione per l’alcol diffusa nella mia famiglia. Dopo qualche anno, in un altro paesino dell’Oltenia, ho avuto modo di vedere due donne che portavano sulle spalle uomini che erano al limite del coma etilico. Quando non ce la facevano più, li gettavano con grande delicatezza nel fossato al bordo della strada.

Anni memorabili
Al liceo ho scoperto la pallacanestro e mi sono innamorato come solo un adolescente si può innamorare. Considerato che la mia principessa giocava anche lei a pallacanestro, ho cominciato ad allenarmi seriamente. Sono riuscito a essere selezionato per andare in colonia a Costineşti, sul mar Nero, insieme all’amore della mia adolescenza. L’ho tenuta per mano per la prima volta sul treno e le ho dato il primo bacio nel castello del parco divertimenti in riva al mare. Sono ancora tra i ricordi più vividi che conservo nella memoria.

Da adolescente sono stato incredibilmente felice. Gli ultimi due anni del liceo sono stati probabilmente il periodo più duro di tutta l’epoca comunista, ma per me sono stati fantastici. Giocavo a pallacanestro sempre meglio, non potevo immaginare una principessa più principessa della mia e avevo dei compagni di classe meravigliosi. Leggevo tanto e mi costruivo in testa un sacco di storie fantastiche, che mi aiutavano a evadere dalla realtà sempre più dura di casa, dove mio padre cominciava a essere violento e razzista.

Ho rinunciato completamente al calcio quando ho cominciato a giocare nella squadra di pallacanestro della scuola. Sono stato fortunato anche all’esame per il passaggio dalla seconda alla terza liceo, e poi sono entrato senza difficoltà all’università. Il servizio militare, che ho fatto negli ultimi tre mesi del comunismo, è stato un’avventura. Ma di questo vi racconterò un’altra volta.

(Traduzione di Mihaela Topala)

Questo articolo è apparso sul settimanale romeno Dilema Veche.

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