21 agosto 2015 17:23
Il leader del Partito democratico del Kurdistan, Masud Barzani, a Dohuk, nel nord dell’Iraq, il 3 agosto 2015. (Ari Jalal, Reuters/Contrasto)

Per il momento nel Kurdistan iracheno non ci sono state manifestazioni imponenti come quelle di Baghdad. Eppure la crisi tra i partiti curdi è al culmine. Secondo la costituzione del governo regionale, il 20 agosto è stato l’ultimo giorno di presidenza per Masud Barzani, il leader del Partito democratico del Kurdistan (Pdk), che ora ha intenzione di prolungare il suo mandato di altri due anni, alla fine dei quali avrà ricoperto quest’incarico per 12 anni.

Dopo una lunga serie di negoziati alcuni partiti, tra cui il principale alleato del Pdk, l’Unione patriottica del Kurdistan (Upk), e il Goran, all’opposizione, hanno deciso di concedere a Barzani altri due anni, ma solo a condizione che accetti di limitare i suoi poteri.

Tuttavia, durante l’ultimo incontro, i quattro principali partiti curdi (Pdk, Upk, Goran, la coalizione islamica) non sono riusciti a trovare un accordo perché Barzani non vuole rinunciare alle sue prerogative. E, in questa situazione di conflitto, gli scenari per il prossimo futuro sono cupi: o ci saranno altri sessanta giorni di fitti colloqui per evitare la crisi politica, o si lascerà governare Barzani per altri due anni senza limitare i suoi poteri, o si andrà alle elezioni legislative e presidenziali anticipate.

L’ostinazione di Barzani, che sfida i suoi alleati in parlamento e nel governo, ha portato anche a una divisione tra il capoluogo curdo Erbil (dominato dal Pdk) e la città di Sulaymaniyya (dominata dall’Upk e dal Goran). Questa divisione comporta un rischio di guerra civile.

Tutta questa crisi avviene in un momento di gravi problemi finanziari. Per non parlare del fatto che il gruppo Stato islamico si trova a soli trecento metri dall’ultimo check point controllato dai peshmerga (i guerriglieri curdi) e della disputa ancora in corso con il governo centrale di Baghdad sulle esportazioni di petrolio e il pagamento degli stipendi dei dipendenti pubblici. Di fronte a tutto questo, un blogger curdo si è chiesto: “Cosa stiamo aspettando? Facciamo come i giovani manifestanti di Baghdad, che sono scesi in piazza!”.

(Traduzione di Francesca Sibani)

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it